“Non meriti di esistere” è lo stigma che Antonio Ligabue porta indelebile su un corpo mostruoso ed una mente affollata di demoni. È in manicomio e affiorano i ricordi di bambino deriso e temuto. Una famiglia affidataria in Svizzera cerca invano di ammansirlo, ma il disadattato è condotto a Gualtieri, un paesino dell’Emilia dove la discriminazione persiste. L’angoscia è attutita da una natura che sola rasserena l’animo inquieto di Al Tudèsc, il tedesco. Il critico Mazzacurati offre a quel selvaggio una coraggiosa fiducia nella sua misteriosa creatività, incoraggiato dalla madre. Ligabue ora può dipingere e sfogare i suoi incubi, gemere davanti alla tela, comunicando con le bestie esotiche che rappresenta. Giunge una parvenza di successo e il riconoscimento del già affermato De Chirico: “il colore nelle sue opere esplode nello spettacolo sbalorditivo di una presenza quasi primordiale (…) un’allucinata narrazione visiva” (…) “che sa dare in un unico impasto lo specchio del conflitto del Creato”. Così la critica elogia Ligabue che ambisce ad essere finalmente accettato in società, ma la salute vacilla e il nostro, impossibilitato ad amare l’unica donna che lo ricambierebbe, finisce i suoi giorni disperato in un letto d’ospedale, gridando che non vuole morire.
Ligabue è un errore della Natura, incapace di comunicare qualunque sentimento e che i suoi simili cercano solo di addomesticare, senza concedergli mai uno sguardo d’amore. Eppure, è proprio quella Natura, che con lui è stata “matrigna”, a offrirsi al suo sguardo penetrante come una via di salvezza. Attraverso i colori violentemente trasposti sulla tela, con la manipolazione della creta per fare figurine per i bambini che lo guardano attoniti, Ligabue emette il suo maieutico inconsapevole sforzo di “tirare fuori” dalla materia grezza l’immagine di un animale o di un paesaggio in cui viva la pace che gli manca nel cuore. Lambisce anche l’amore di una donna, ma gli è ottusamente precluso. È il critico Mazzacurati il tramite di una salvezza insperata, quella per la cui gratitudine Ligabue si inginocchia, devoto, baciando le mani della madre di lui: tutto il calore che l’artista naif non ha mai sperimentato, ma che sa riconoscere: “io capisco subito se una persona è buona o è cattiva”.
Giorgio Diritti meriterebbe un successo di pubblico più corrispondente alla puntualità con cui ogni sua opera riscuote l’unanime successo della critica. I suoi quattro film, dal 2005 al 2020 sono stati i protagonisti in assoluto dei David di Donatello e dei Nastri d’argento; vince come miglior film e miglior produttore il David con L’uomo che verrà nel 2009 sulla strage di Marzabotto e vince sette premi sulle quindici candidature totali, come miglior film e migliore regia, proprio con Volevo nascondermi, per il quale Elio Germano ha ottenuto l’Orso d’argento a Berlino come miglior attore. Un’abbinata che vede nel 63enne regista bolognese uno dei più maturi cineasti italiani e nell’ancor giovane attore romano – anche alla luce dell’interpretazione di Leopardi nel Giovane favoloso del 2015 – uno dei più puri talenti del nostro Paese. Diritti è attratto dal vernacolo dei luoghi e abbina a dialoghi con sottotitoli, immagini all’opposto assolutamente esplicite che, nella vividezza della fotografia iperrealistica e nel potere evocativo dei movimenti, riproducono quelli del pensiero in cerca di fuga del protagonista (si pensi alle carrellate nei corridoi dell’ospedale o fra i portici del paese). Andrea Gherpelli (Andrea Mozzali nel film) ha dichiarato in esclusiva per noi che recitare con Diritti “è come camminare e chiudere gli occhi, potendosi affidare alla guida di un maestro”. E Germano pare confermarlo. Introiettando completamente il demone di Ligabue, ogni tratto della sua prossemica ci offre una figura disarmata e complessa: un uomo e un artista che scuote la nostra coscienza e ci fa sospirare che “da vicino nessuno è normale”.
Giovanni M. Capetta
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