Gli ultimi anni di vita di Vincent van Gogh: l’amicizia con Paul Gauguin, il legame con il fratello Theo, la chiusura nel nosocomio di Saint-Rémy fino alla morte.
Van Gogh, il pittore che in pochi anni di vita, ha lasciato innumerevoli disegni e tavole, non vendendone alcuno prima della morte, ha un fascino senza tempo. I suoi quadri riempiono l’immaginario di diversi artisti da oltre un secolo. Eppure, quando di fronte si ha un pittore come Van Gogh, è difficile pensare che possa essere realizzato un lungometraggio capace di restituirne l’arte, l’inquietudine, la solitudine e la pazzia. E sulla scia di questa difficile riproducibilità, che può avere come primo limite la didascalia, Julian Schnabel tenta con Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità questo difficile compito.
Lo sapeva Schnabel, il regista conosciuto in Italia per Lo scafandro e la farfalla, che prima di arrivare alla macchina da presa ha lavorato e continua a farlo come pittore. E poteva tentare la sfida che questo lungometraggio comporta, forse solo lui, artista e regista, che ha esordito al cinema nel 1996 con un film su Jean-Michel Basquiat, il graffitista più famoso del nostro secolo. Se si pensa al titolo originale si comprende il cuore dell’operazione filmica di Schnabel. Infatti il nome di Van Gogh non è presente, c’è solo At Eternity’s Gate, che è stato lasciato nel titolo italiano però con un’aggiunta: il titolo completo è Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità.
In competizione a Venezia e premiato per la grande interpretazione di Willem Dafoe nei panni del pittore, il film non ha le caratteristiche tipiche di un biopic o di un documentario come lo sono stati Loving Vincent o Van Gogh – Tra il grano e il cielo. Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità è uno sguardo sull’uomo inquieto, sul pittore che dipinge il mondo e lo fa anche se incompreso dai suoi contemporanei. La musica invade le immagini (forse uno dei difetti stilistici imperdonabili del film) e Van Gogh, ormai pittore trentaduenne, lascia l’Olanda e a Parigi in un bar incontra Paul Gauguin (Oscar Isaac), l’amico con il quale condividerà costanza e passione per i soggetti da dipingere. Scena dopo scena assistiamo a un racconto emotivo: i girasoli, le donne, gli autoritratti, la luce, entrano nella scena. Colpiscono gli spettatori che si sentono parte del processo creativo. E poi i dettagli si contestualizzano: il soggiorno nella cittadina di Arles, il taglio dell’orecchio (dovuto a un innamoramento?) la degenza al nosocomio Saint-Rémy, e la morte a opera di due giovani ladri nel 1890. Tutti elementi che sono stati ripresi dal carteggio corposo tra il pittore Vincent e il fratello Theo (Rupert Friend, nel film), proprietario di una galleria d’arte, e dal libro Van Gogh: The Life, che rinuncia all’episodio del suicidio e rilancia la tesi dell’omicidio dell’artista.
La macchina da presa di Schnabel sembra avere gli occhi, il cuore, la mente di Van Gogh. E si distanzia solo quando lui non è soggetto unico della scena. Nei dialoghi con il fratello che ha finanziato sempre Vincent, nel confronto con i medici (tra cui Mathieu Amalric) il film sembra prendere un’altra strada: quella della spiegazione di cosa sta accadendo al pittore, fino a diventare una sterile contrapposizione quando Van Gogh dialoga con il prete (il danese Mads Mikkelsen). E se si intravvede quella mano che ha saputo restituire forza nella malattia (come ne Lo scafandro e la farfalla), il limite del film è non riuscire a creare una storia compatta in cui gli eventi della vita di Van Gogh sembrano spiegare eccessivamente (lo si intuisce anche dall’inquadratura fissa della macchina da presa in molti dei dialoghi), e distolgono lo spettatore dalla poesia della creazione e dalla fragilità dell’immaginazione di un artista, tenuto in vita dall’affetto del fratello, che meritava più comprensione e più appoggio da chi lo circondava.
Scegliere un film 2019
Tag: 3 stelle, Arte, Biografico, Drammatico