In un orfanotrofio di New York, Nathan Drake è un bambino che ha come unico legame il fratello maggiore Sam. Entrambi appassionati di esplorazione e miti, i due ragazzini fantasticano sul primo giro del mondo di Magellano e il leggendario tesoro che la sua ciurma avrebbe trovato e nascosto. Quindici anni dopo, Nathan si arrabatta lavorando come barista e facendo qualche furtarello. Non sente più Sam da tempo, se non per alcune cartoline che il fratello gli ha mandato anni prima. Torna a sentire il suo nome quando al bar viene a fargli visita Victor Sullivan, un esploratore che giura di aver lavorato con Sam alla ricerca del tesoro perduto di Magellano. Dietro alla promessa di ritrovare le navi, l’oro e il fratello scomparso, Nathan accetta di aiutare Victor nella ricerca.
Dopo il grandissimo successo della saga videoludica, iniziata nell’ormai lontano 2007 con il primo titolo per Play Station, la Sony ha deciso di puntare su Uncharted anche nelle sale cinematografiche. Per farlo ha puntato su due sceneggiatori esperti in lanci di saghe come Art Marcum e Matt Holloway, che lavorarono insieme nel 2008 sullo script del primo Iron Man, e Rafe Judkins, showrunner della recente serie di punta Prime Video La Ruota del Tempo. Il tutto sotto la regia di Ruben Fleischer, rilanciato dopo alcuni flop dall’incredibile successo commerciale di Venom, altro prodotto Sony.
Se sceneggiatura e regia non bastano, la scelta di Tom Holland come protagonista nei panni di Nathan Drake è il terzo indizio che fa da prova all’evidente tentativo di Sony di attirare a sé l’affamato pubblico Disney. Di più: l’ingaggio in corsa dell’attore che negli ultimi anni ha impersonato lo Spiderman del Marvel Cinematic Universe – con conseguente cambio di ruolo a Mark Walhberg, da protagonista a spalla – è l’ennesimo guanto di sfida lanciato alla casa di Burbank, che negli ultimi anni si è accaparrata le saghe più amate dai giovani.
Il risultato è un film che gioca, nel vero senso della parola, sul senso di stupore e appagando l’occhio con scene da videogame, dove la voglia di indagare su ciò che è appunto “inesplorato” è alla base del brand di Uncharted, ma più in generale dei videogiochi premiati negli ultimi anni.
Se è vero che Naughty Dog – la casa di produzione del videogioco – basa la fortuna dei suoi titoli (tra gli altri, oltre a Uncharted, il celebre The Last of Us) su narrative sorprendenti e immersive, è paradossale come il film tradisca le aspettative proprio nella trama: le atmosfere da Indiana Jones e Tomb Raider – a cui il videogioco si ispirò – finiscono con condizionarne lo sviluppo. Il film inizia con il desiderio di Nathan di vivere un’avventura e il suo bisogno di ritrovare il fratello scomparso. Se il desiderio del ragazzo viene esaudito, nel finale si perde un po’ la dimensione familiare che veniva promessa all’inizio, quando il pubblico incontra e si lega al protagonista in un orfanotrofio.
Inoltre, il piano di Victor e Nathan e il loro rapporto stevensoniano in stile Long John Silver/Jim risultano semplici e diretti, permettendo allo spettatore di entrare subito nella storia, che si rivela però presto una mera caccia al tesoro ostacolata da cliché più che da avversari. Quasi dei PNG (personaggi non giocanti) programmati al livello principiante, per non disturbare troppo “l’esperienza di gioco” del pubblico. Che però in sala non ha un joystick con cui divertirsi. Per ora…
Claudio Benedetti
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