All’indomani della Rivoluzione dei Gelsomini (2010-2011), la giovane psicanalista Selma Derwich torna a Tunisi, sua città natale, per esercitare la sua professione. Ha vissuto e studiato a Parigi ed è a tutti gli effetti francese nel modo di vestire e di pensare; è single e indipendente e crea scompiglio nella comunità araba, dove i suoi stessi zii la accolgono a fatica. Allestito uno spartano studio (un divano appunto) Selma inizia a fare le sedute con personaggi tanto bizzarri quanto bisognosi di aiuto; a tutti dispensa consigli ed anche per sua cugina Olfa, stanca del retaggio islamico famigliare, è un’alleata preziosa. Le cose, però, si complicano quando un poliziotto molto zelante (e forse innamorato) e una burocrazia farraginosa congiurano perché la ragazza accetti di sospendere l’attività.
Il film, vincitore delle Giornate degli Autori a Venezia 2019, è a tutti gli effetti una commedia francese ambientata a Tunisi. Lo humor e l’atmosfera che la regista e sceneggiatrice traspone nel suo Paese d’origine, risentono della sua formazione parigina.
È in questo genere di film che l’azione è spesso piuttosto trascurata e arrivati i titoli di coda lo spettatore prova uno spiacevole senso di incompiutezza. Ciò nonostante all’allure della protagonista si deve la brillantezza a tratti del racconto: Golshifteh Farahani – attrice iraniana, già scelta da Jim Jarmusch e Ridley Scott – presta al personaggio di Selma, con le dovute distinzioni, la volitività sbarazzina che Audrey Tautou diede alla protagonista de Il favoloso mondo di Amélie nel 2001.
A differenza, però, del film fantasioso-onirico di Jeunet, qui la regista franco-tunisina vorrebbe lasciare un messaggio più impegnativo, ovvero quale dialogo sia possibile fra Occidente e Islam? C’è spazio per un’inculturazione reciproca – simbolicamente rappresentata dal poster di Freud con in testa il fez – o dobbiamo rassegnarci ai pigri cliché a cui siamo abituati? L’aiuto che la protagonista cerca di offrire ai suoi pazienti sembra scontrarsi con una realtà che non permette una vera integrazione. E allora i poliziotti si scandalizzano all’uso della parola “sesso”, Olfa, pur di andare in Europa accetta di sposare un franco-tunisino gay e la stessa Selma, con jeans e maglietta non può ambire nessun rispetto fra gli uomini della comunità. La giovane donna, del resto, non è del tutto risolta e nasconde le sue insicurezze dietro il fumo di qualche sigaretta.
“Guarda che qui non siamo in Europa, noi un Dio ce lo abbiamo, non c’è bisogno di questo genere di stupidaggini qui da noi… la psicanalisi, ma dai per favore!” dice lo zio di Selma e in questa esclamazione vi è il nucleo tematico del film. Di fatto il contesto islamico tunisino, seppure mai dipinto con tinte fosche, pare non sentire il bisogno di una scienza che studi la psiche, quasi a dire che sia un frutto inutile della secolarizzazione occidentale. È significativo, infatti, che lo zio si riferisca alla presenza di Dio in Tunisia, dando per scontato che, invece, nell’Europa scristianizzata (e in Francia in particolare) di Dio non vi sia più traccia.
La “strizzacervelli”, per di più al femminile, dunque, non ha chance nella società del Corano. Eppure i problemi psicologici ed esistenziali sono gli stessi nostri – c’è anche un panettiere con tendenze omosessuali che fa resistenza alla polizia nel bagno turco delle signore – e Selma cerca almeno di rendere chi incontra più consapevole dei suoi disturbi. Ancora più dissacrante verso la psicanalisi era stato il nostro Caruso Pascoski (di padre polacco), del 1988, quarta regia dello sfortunato Francesco Nuti. Anche in quel film vi era un’esilarante sequenza di assurdi pazienti che sfilavano nello studio del terapeuta, ma gli intenti erano meno velleitari. Un divano a Tunisi a tratti diverte, a tratti fa pensare, ma non riesce ad andare in profondità e pare perdere non poche occasioni di lasciare un segno più marcato.
Giovanni M. Capetta
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