In una palazzina di Prati a Roma vivono al primo piano Lucio e Sara, con la piccola, Francesca, che spesso affidano agli anziani vicini, Giovanna e Renato. Un pomeriggio Renato si perde con Francesca, nel parco. Ritrovato con la bambina in stato confusionale, Lucio è ossessionato che il vecchio l’abbia violentata. In seguito, Lucio, in crisi con la moglie, ha un rapporto sessuale con Charlotte, nipote minorenne degli anziani ed è lui a subire un processo.
Al secondo piano Monica, ha appena partorito una bambina e comunica con il marito Giorgio, sempre all’estero per lavoro, in videochiamata. È terrorizzata dalla solitudine e inizia ad avere disturbi mentali che teme siano come quelli della madre ricoverata in clinica. Dopo la nascita del suo secondo figlio, fa perdere le sue tracce ai familiari.
Al terzo piano Dora e Vittorio, entrambi giudici, vivono insieme al figlio ventenne, Andrea, che ubriaco, la notte, sotto casa, investe e uccide una donna. Sconvolto, chiede ai genitori di fargli evitare il carcere, ma il padre, inflessibile, ritiene che debba essere condannato. Fra i due la tensione arriva alla violenza fisica. Vittorio costringe Dora a scegliere fra lui e il figlio. Dopo la morte di Vittorio, la madre riesce a rintracciare Andrea, uscito dal carcere, che, però, diventato padre, vuole dimenticare il passato.
Dopo la standing ovation di undici minuti nella sua patria putativa che è il Festival di Cannes, con questo suo ultimo film, l’imprevedibile Nanni Moretti è riuscito a dividere anche gli estimatori più appassionati. Se alcuni hanno ammirato in Tre Piani il desiderio del cineasta maturo di cimentarsi per la prima volta con un testo altrui e proseguire la strada di personale realismo inaugurata con La stanza del figlio del 2001. la maggior parte ha bocciato la trasposizione del romanzo israeliano, contestando prima di tutto il passaggio da Tel Aviv a Roma, come se il peculiare contesto israeliano non avesse un rilievo fondamentale.
Effettivamente la palazzina borghese del quartiere Prati sembra decontestualizzata e pochi sono gli appigli per decodificare le vicende dei personaggi alla luce della città in cui vivono. Anzi, i pochi riferimenti sono un po’ stereotipati (i manifestanti fuori dallo spaccio per gli immigrati).
Quello che più manca è ciò a cui Moretti ci ha da sempre abituato. La dimensione autobiografica, anche se non messa in scena, ma almeno sotto forma di gusto per l’ironia e il sarcasmo, il desiderio di stupire con figure eccentriche che costringono lo spettatore a chiedersi cosa sia davvero la normalità, o se essa esista davvero. Qui il racconto è affidato all’empatia che gli attori dovrebbero provocare, ma il cast, pur così blasonato, non riesce nell’intento e – dispiace dirlo – ma la stessa Margherita Buy pare talvolta adagiarsi su una messa in scena di se stessa; mentre il cameo del regista accentua dei tratti di durezza che spiazzano chi vuole, ad ogni film di Moretti, entrare direttamente in relazione con la sua persona. Anche l’interpretazione psicanalitica del film, in cui i “tre piani” sarebbero i freudiani stati dell’Io, dell’Es e del Super-Io può essere messa agli atti, ma non contribuisce a godere maggiormente del racconto, quasi che il regista abbia scelto di sottrarre la sua interpretazione per lasciare spazio esclusivamente al romanzo (se si esclude la scena tipicamente iperrealista della banda per la strada): una scelta di omissione che un autore come lui, il cui pensiero è sempre così atteso dal suo pubblico, forse non poteva permettersi.
Giovanni M. Capetta
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