A Ebbing, in Missouri, tutti conoscono Mildred Hayes come la madre di Angela, la ragazza stuprata, uccisa e poi bruciata in una strada di campagna. Dopo quasi un anno però ancora nessuna traccia del colpevole. Per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e mettere alle strette la polizia, che ha già smesso di indagare, la donna decide di affittare tre manifesti pubblicitari con i quali urla al mondo il suo dolore per quell’omicidio ancora impunito. Questa provocazione la porta a scontrarsi con lo sceriffo Willoughby, un brav’uomo che però, pochi lo sanno, è affetto da un tumore al pancreas in fase terminale…
Dopo In Bruges e 7 Psicopatici, Martin McDonagh centra il bersaglio grosso con una pellicola potente e ispirata, una black comedy che ricorda tanto le opere migliori dei fratelli Coen, ai quali il regista irlandese ha evidentemente guardato a cominciare dalla scelta del cast (la protagonista infatti è una straordinaria Frances Mc Dormand, moglie di uno dei Coen, in odore di Oscar). Il risultato è un piccolo capolavoro, un film emotivamente asciutto ma al tempo stesso così toccante e rispettoso del dolore, capace di strappare diverse risate e anche qualche lacrima. La sceneggiatura, pluripremiata (si è già aggiudicata il Golden Globe e il premio Osella alla mostra di Venezia), è il punto di forza del film, con dialoghi al tempo stesso pungenti e profondi, dai quali emerge prepotente la lunga militanza teatrale dell’autore.
Al centro, il dolore di una madre che ha perso sua figlia in modo atroce, tra rabbia e sensi di colpa (si scopre infatti, nel corso del film, che i rapporti tra le due erano tutt’altro che idilliaci), ma la sua storia, e il gesto provocatorio che dà il la a tutta la vicenda, sono solo il pretesto per scoperchiare un calderone di sofferenza e risentimenti sommersi tra gli abitanti della cittadina di Ebbing, immaginaria provincia di un’America che si riscopre ottusa e razzista. La bellezza del film sta proprio nella sublime scrittura dei personaggi, così variegati e diversi tra loro da sembrare quasi i rappresentanti dell’umanità intera, eppure tutti così simili nel rimanere morbosamente attaccati al proprio dolore, talmente complessi e ricchi di sfaccettature che è davvero impossibile non empatizzare con ognuno loro.
Rabbia e rispetto, amore e odio, dolore e momenti di grande serenità si mischiano magistralmente facendoci sentire, più di una volta nel corso della pellicola, che nonostante l’assurdità della situazione e i comportamenti surreali di certi personaggi decisamente fuori dagli schemi, c’è tanta verità in scena. Perché le persone sono così: complicate, ferite, arrabbiate, capaci di una misteriosa e inaspettata nobiltà d’animo ma anche di atti di inaudita violenza. Tutti comunque, in cerca di giustizia e di amore, nonostante l’inferno di chi ha l’odio nel cuore (che in modo magistrale viene tradotto visivamente nelle fiamme degli incendi che più volte tornano nel corso del film).
Le persone sono mutevoli e anche quando prendono le decisioni sbagliate, hanno sempre la possibilità di ripensarci, riflettendoci strada facendo, come dice la protagonista nella battuta finale del film. È il dolore che genera la violenza ma anche le più grandi e sublimi manifestazioni d’amore.
Gabriele Cheli
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