Le giornate di Jack Cunningham, un operaio di Los Angeles, si trascinano tra il cantiere, la famiglia della sorella, e uno squallido pub, meta del suo quotidiano pellegrinaggio per ubriacarsi. La dipendenza gli ha invaso la vita. Anche lontano dal bancone, con dissimulata abilità, senza farsi notare, Jack beve. Al lavoro, dal termos che non contiene solo caffè. A casa, dove la lattina di birra lo accompagna anche sotto la doccia. L’alcol serve a mettere la sordina alla disgrazia – una malattia oncologica, un lutto – da cui non si è ripreso. Del tutto inattesa, arriva però un’involontaria – forse – ciambella di salvataggio. Padre Devine, il preside della high school cattolica dove Jack era stato un campione di basket, gli chiede di allenare la malmessa squadra dell’istituto, rimasta priva di coach. Inizia qui, aiutando dei ragazzi, un’inversione di rotta che non sarà semplice.
Anche quando ti ha colpito al cuore, resta possibile fare pace con la vita. Ma, non ci si deve illudere, è un percorso tortuoso. Questo il messaggio di un film che fa suoi i classici schemi del genere sportivo, eseguendoli alla perfezione entro un dramma realistico. Lo sport, più che per la celebrazione dello spirito di squadra e dell’underdog vittorioso, è usato qui come leva per l’indagine esistenziale, nelle fatiche e nelle gioie intime del personaggio. C’è l’idea che vinci non quando (almeno non solo quando) alzi un trofeo, ma quando hai fatto i conti con te stesso e con la tua storia personale. E’ l’impostazione di un filone chiaroscurale in cui rientrano film sullo sport pur molto diversi tra loro: per esempio Million Dollar Baby, The Wrestler e Moneyball.
Gonfio, appesantito, gli occhi un poco sfuggenti nelle fasi di deriva. Grinta virile sul campo, ricorrendo al turpiloquio per dare la carica (il film assegna una valenza simbolica a questo aspetto dei dialoghi). Affleck dà un’ottima prova, mettendo a frutto la sua personale esperienza di ex alcolista. Disegnando al contempo il Jack allenatore sul modello del severo insegnante di teatro che lo avviò alla recitazione.
Ci si affeziona al personaggio perché ha patito. Lo si invidia perché ha conosciuto il successo. Lo si ammira perché sa parlare agli adolescenti e ottenere progressi nel basket e fuori. Si prova sincera pena nel seguirlo farsi del male. Il film non edulcora la dipendenza, il trauma delle ricadute, quando una situazione di malattia ridesta l’incubo personale del personaggio.
È peculiare il modo in cui la pellicola coniuga la trama sportiva e quella umana. Essenziale la prima: le parti di gioco, gli allenamenti, il rapporto con i giocatori raccontati con energia e brevità. Di pedinamento e resa veristica, invece, la seconda. La vicenda si sviluppa su un doppio binario struggente per lo spettatore che, a differenza dei ragazzi e del personale della scuola, ha accesso al segreto tormento del coach. In tutto questo, il punto più bello è alla fine del secondo atto del film, quando la scena di un successo agognato passa al rallenti, lasciandoci alcuni istanti sul protagonista. Disarmato, pervaso da un sentimento che non credeva possibile e ricorderà per sempre.
Sceneggiatore e regista calibrano i toni per regalare al pubblico tristezza e speranza, presa d’atto che la realtà è dura, incoraggiamento per farvi fronte nonostante tutto. Gli autori hanno trovato la giusta alchimia dopo una prima versione della storia troppo dolente, intitolata “Vecchia gloria” (The Has-been).
Una nota di merito alla colonna sonora composta da Rob Simonsen. Introspettiva, partecipe, motivational.
Paolo Braga
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