In una giornata apparentemente ordinaria, il placido e quasi annoiato Christian, direttore di un museo di arte contemporanea, si trova derubato del portafogli e del cellulare. Tale furto, nella sua banalità, fungerà da incidente scatenante nel costringere il protagonista ad una ricerca che lo porterà a contatto con una fetta di mondo sconosciuto, i bassifondi della propria città, e che in palio ha non solo il ritrovamento degli effetti personali, ma una maggior consapevolezza della propria identità.
In una storia strampalata, dai contorni sfilacciati, gremita di anacoluti, nonsense, elementi surreali, l’unica certezza sembra essere The Square, l’istallazione dai contorni ben definiti con cui prende le mosse la vicenda del protagonista, un quadrato scavato nel pavimento antistante il museo di arte contemporanea, al cui interno ogni essere umano presenta gli stessi diritti e gli stessi doveri, “un santuario di fiducia e altruismo”. Ed è proprio in questa costruzione che dobbiamo andare a ricercare la chiave di lettura di tutta la storia. “Il quadrato” rappresenta l’utopia borghese di un mondo idealmente desideroso di andare incontro all’altro, tecnicamente smanioso di conoscere ciò che è diverso, distante, marginale. Ma anche lo slancio più genuino, finché rimane circoscritto nei gangli della teoria, è destinato ad essere smentito e sconfessato dai fatti: Christian sogna un mondo dove tutti sono uguali, dove ogni individuo ha gli stessi diritti e i medesimi doveri del fratello, ma non solo si presenta l’occasione di dare un risvolto pratico al suo pensiero, di lasciare un segno concreto, agisce esattamente secondo i canoni della mentalità borghese in cui è immerso.
Ciò che è ancor più grave è il fatto che, in fondo, egli non sia del tutto consapevole della propria condizione; per quanto aneli al cambiamento per tutta la storia, per quanto nel corso degli eventi maturino in lui delle domande, alla resa dei conti non è pronto per essere diverso, non è ancora in grado di cambiare, e nel dialogo con un ragazzino dei quartieri bassi, che lo mette spalle al muro in poche battute, non può fare a meno di giustificarsi, e in ultima analisi di autoassolversi. Quasi a voler rimarcare il fatto che il cambiamento sia per pochi eletti, e tra questi non rientri, in alcun modo, nessun esponente della classe borghese.
The Square è un film sgradevole e al tempo stesso coinvolgente, prolisso e sincopato, che si barcamena tra gli eccessi senza mai trovare un vero equilibrio. A Cannes non poteva passare inosservato e per questo gli è stata riconosciuta la Palma D’Oro, non per la godibilità della storia narrata, ma per un sentimento conturbante che essa riesce ad innescare nello spettatore. In cima a tutte, a questo proposito, vi è la scena in cui, durante la cerimonia inaugurale della nuova mostra presso il museo, un performer che si atteggia a scimpanzé interrompe il pranzo e incomincia a importunare, prima scherzosamente, poi con sempre maggior veemenza, alcuni malcapitati, scelti senza alcun criterio nella folla. Gli astanti reagiscono dapprima col sorriso, completamente ignari della piega degli eventi poi, in un crescendo di violenza emotiva, quando comprendono di essere in balia dell’animale, ammutoliscono e reprimono ogni reazione, lasciando sole, di volta in volta, le vittime. Questa scena rievoca inevitabilmente quella iniziale, pochi attimi prima del furto, quando, nel via vai dei sotterranei della metropolitana, i passanti oltrepassano, nella totale indifferenza, i corpi abbandonati sull’asfalto, ebbri di solitudine, di barboni ai loro occhi invisibili. Purtroppo però, in questa prospettiva meccanicistica della realtà, dove il tempo è inesorabilmente ciclico, non c’è spazio per il ravvedimento, né per il cambiamento. La ruota gira incessantemente. Chi entra nel Quadrato prima o poi dovrà uscirne, per fare spazio a sua volta a un nuovo individuo.
Miriam Farabegoli
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