Peter è un uomo di potere e ha appena avuto un figlio dalla nuova compagna, quando la ex moglie, Kate, lo coinvolge per la salute del figlio adolescente, Nicholas, che mostra segni evidenti di disagio, non volendo più frequentare la scuola. Il padre lo accoglie con sé, iscrivendolo ad una nuova scuola, ma la situazione del ragazzo non migliora, anzi. Nicholas si procura tagli sulle braccia e confessa al padre che il suo male di vivere è originato dalla separazione dei genitori e da quello che ha vissuto come un abbandono da parte di suo padre. Poco dopo, Nicholas si taglia le vene e, salvato dal suicidio, è trattenuto in un reparto psichiatrico, ma da qui supplica i genitori di essere “liberato”, anche se i medici chiedono di lasciarlo in ospedale. Peter e Kate, in dubbio fino all’ultimo, cedono, sopraffatti dalle urla del ragazzo e lo riportano a casa, non immaginando cosa potrà succedere.
Dopo aver vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale con Father nel 2020, Zeller si ripropone con la seconda opera di una trilogia che prevederà anche un film sulla madre. Il co-sceneggiatore è lo stesso e Hopkins (che per Father vinse il suo secondo Oscar come protagonista) offre un cameo, come una sorta di sua benedizione. Anche in The Son l’interprete principale, Hugh Jackman, è particolarmente ispirato, tanto da meritare la candidatura nella categoria ai Golden Globe 2023. Le stesse comprimarie femminili Laura Dern e Vanessa Kirby danno buona prova di sé, mentre meno convincente è la recitazione del giovane interprete di Nicholas, forse penalizzato da un doppiaggio non molto felice. Il film affronta un tema di drammatica attualità che è quello del disagio esistenziale fra i giovani adolescenti, un fenomeno, purtroppo, sempre più diffuso in tutto il mondo occidentale, ma forse anche a livello planetario, tanto che un settimanale nostrano, qualche mese fa, usciva con in copertina il titolo “Xanax Generation”. L’argomento così scottante ha attirato l’attenzione e anche l’ammirazione della critica, mentre da parte del pubblico la risposta è stata meno entusiasta. La motivazione potrebbe rintracciarsi in un andamento del racconto piuttosto appesantito che deriva dall’impianto drammaturgico tipicamente teatrale dello script, che forse avrebbe potuto venire maggiormente incontro alla sensibilità del pubblico cinematografico, abituato ad una narrazione più dinamica.
È quanto afferma lo psichiatra, quando si rivolge ai genitori di Nicholas per convincerli (invano) a lasciare il figlio in ospedale e la frase sintetizza bene il dilemma che il film sviscera fin dal suo inizio. Siamo tutti una domanda d’amore e il giovane protagonista non fa che esprimerlo, in ogni modo, anche attraverso la violenza dell’autolesionismo, dei silenzi, dell’astensione da scuola. La sua depressione è un urlo, in particolare verso suo padre, che non gli ha tenuto più la mano, come quando da bambino (nel flashback) gli insegnò a nuotare. Più volte Nicholas chiede al papà di proteggerlo e l’assenza del padre che non riesce a comprendere il suo dolore anche quando è lì di fronte a lui, affiora come una ferita inguaribile. Peter non sa curarla se non dicendo che quando il figlio si fa male, fa male anche a lui. Il non amore fra i suoi genitori, il non amore del padre di Peter per il figlio e la moglie… queste mancanze aggrediscono il cuore e la mente di Nicholas che non sa come liberarsi dal dolore, ma purtroppo neanche i suoi genitori sembrano sapere come riparare agli errori del passato e la stessa medicina psichiatrica quando viene incontro a chi soffre propone soluzioni e metodi spesso difficili da accettare. Non c’è un facile lieto fine, ma resta una domanda aperta che per molti può già essere una via.
Giovanni M. Capetta
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