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The Apprentice – Alle origini di Trump


TITOLO ORIGINALE: The Apprentice
REGISTA: Ali Abbasi
SCENEGGIATORE: Gabriel Sherman
PAESE: USA, Canada, Danimarca, Irlanda
ANNO: 2024
DURATA: 123'
ATTORI: Sebastian Stan, Jeremy Strong, Maria Bakalova
SCENE SENSIBILI: alcune scene di sesso esplicite, di cui una di violenza sessuale; turpiloquio; una scena di intervento chirurgico con dettagli che possono impressionare
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New York nel 1973. La città è in declino. Criminalità, eroina, prostituzione. Un giovane imprenditore ambizioso e inesperto non si fa deprimere da quest’aria negativa. Sogna di sfondare. Di portare su un altro livello l’attività del padre, importante costruttore del Queens, ma ancora senza interessi dove si fanno gli affari veri, a Manhattan. Quel giovane si chiama Donald Trump e se una sera, in un club esclusivo, non avesse incontrato il malefico avvocato Roy Cohn, non sarebbe diventato il tycoon dominatore della scena negli anni Ottanta. L’epoca, cioè, dove si ferma il racconto del film, assecondando tuttavia il pensiero che anche quanto è venuto dopo sia figlio del fatidico incontro con Cohn. Il quale di Trump diventa l’oscuro mentore. Insegnandogli l’arte di prendersi ciò che si vuole a tutti i costi. Deponendo ogni forma di rispetto umano. Facendo strame delle regole. Salvaguardando impunemente la propria immagine con la menzogna.

L’anti-legge del capitalismo senza cuore

Con apprezzabile ispirazione, l’idea della storia è di affrontare il caso Trump rovesciando un aspetto saliente dell’immaginario che l’uomo ha creato su di sé. Se il miliardario deve una parte significativa della sua fama al ruolo di “maestro di business” in un fortunatissimo reality televisivo, il film presenta invece lui nella posizione di chi deve imparare e dimostrare quanto vale. Lui, questa volta, come “apprendista” (il film fa suo il titolo di quel programma tv) in tirocinio presso il più spietato tra gli spietati. Trump ne uscirà vincente, ma trasformato in peggio, molto peggio. Il messaggio offerto agli spettatori è che quando sposi il male, il male ti mangia dentro. Diventerai un mostro (le immagini grafiche nella scena di chirurgia estetica serviranno a dirlo).
La parte migliore è quella iniziale. A scuola di immoralità dal legale che è passato alla storia come una figura perversa. Colui che, violando le procedure, tramando dietro le quinte nel celebre caso Rosenberg, aveva ottenuto la sedia elettrica per i coniugi accusati di spionaggio per i sovietici. L’avvocato d’assalto dei miliardari senza pelo sullo stomaco (Cohn assistette anche Murdoch). L’omosessuale non dichiarato che ricattava testimoni segretamente gay per il loro orientamento sessuale, e morì di Aids asserendo di avere il cancro.
L’interpretazione di Jeremy Strong rende Cohn nelle sfumature: sfacciato e sinuoso, stizzoso e suadente. Una insensibilità disincantata e ferocemente pragmatica che sembra la reazione a qualche originario senso di inferiorità ormai del tutto cancellato. La formazione che l’avvocato impartisce a Trump all’insegna dell’anti-legge (le sue “tre leggi”) del capitalismo senz’anima è scritta come sa fare il cinema americano: dialoghi sferzanti, sarcasmo sboccato ma acuto, battute ad effetto. Siamo nel solco di antieroi come Gordon Gekko (Wall Street) e Frank Underwood (House of Cards).

Una parabola disumanizzante

Quanto al protagonista, la narrazione inizialmente ci fa empatizzare con lui. Trump se la deve vedere con un padre oppressivo. Non scansa compiti spiacevoli (le offese nella riscossione degli affitti). Sostiene il fratello più debole. Non è privo di vision (proprio mentre New York è in momentaneo ribasso è il momento di puntare sulla sua rinascita). Gli autori, dunque, non hanno voluto trascurare l’umanità del personaggio. Anche perché, come accennato sopra, l’intento era quello di arrivare a negarla nel finale. Tratteggiando la progressiva incapacità di Trump di provare qualcosa che non sia per sé stesso, ma per le persone che lo circondano. Alla costruzione di questa parabola servono tutti i personaggi. La moglie Ivana (da corteggiata a violentata – lei smentì il fatto), il fratello (da protetto ad abbandonato).
Il punto debole del film è il non aver completamente sviluppato il rapporto maestro-allievo. Quando Trump decolla, Cohn esce abbastanza dalla storia. Anche piuttosto repentinamente. Per quanto l’avvocato rientri nel finale, la parte del distacco tra i due, l’elaborazione della propria indipendenza da parte del protegé in dialogo e conflitto col suo mentore, non è lavorata dal copione. Si mette l’accento solo sugli effetti (l’irriconoscenza del pupillo). Insomma, il film nasce su loro due, e su di loro poteva rimanere di più.
The Apprentice ha un plot e personaggi interessanti a prescindere dalla figura sulla quale si basano. Certo, il film non è stato girato per celebrarla. Nei primi minuti, quando ci introduce agli anni Settanta, le immagini di apertura sono su Nixon che in Tv mente riguardo il suo coinvolgimento nel Watergate (“non sono un farabutto”). Come per insinuare nel pubblico il pensiero che con Trump si è proseguiti in quella direzione. Di parecchio, secondo regista e sceneggiatore, stando alla trama che hanno sviluppato.

Paolo Braga

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