In una tranquilla cittadina del Kyushu, la studentessa di 17 anni Suzume si imbatte in Sōta, un avvenente viaggiatore in cerca di una porta. Confusa dalla strana meta del ragazzo, ben presto Suzume scoprirà che le porte sono degli arcani passaggi per l’”Altrove”, il regno dell’aldilà: è il compito dei Chiudi-porte come Sōta di sigillarli, evitando che da questi fugga una creatura misteriosa che causa i devastanti terremoti giapponesi. La giovane Suzume si imbarca dunque in un viaggio lungo tutto il Giappone sulle tracce delle ferite del proprio Paese, riscoprendo al contempo dei traumi del proprio passata che pensava da lungo tempo di aver dimenticato.
Unico film d’animazione giapponese a riuscire ad andare in concorso alla Berlinale dopo l’illustre precedente de La città incantata di Miyazaki, Suzume riporta sugli schermi internazionali Makoto Shinkai dopo quattro anni dal suo ultimo film.
Suzume, ad un primo sguardo, presenta tutte le caratteristiche tipiche della filmografia di Shinkai: una coppia di giovani innamorati che combattono insieme le avversità, i panorami mozzafiato della campagna giapponese e del mondo urbano di Tokyo, musiche poetiche ed evocative e riferimenti alla tradizione culturale shintoista del Paese del Sol Levante. Tuttavia, questa volta il regista nipponico sceglie di metterli in secondo piano per concentrarsi su un tipo di narrazione molto più complessa e spirituale di quella del tipico road movie scanzonato da adolescenti.
Durante la missione di Suzume per chiudere le porte delle calamità, Sōta spiega come questi portali appaiano in luoghi dove c’è “assenza di sentimenti”, ovvero località abitate dall’uomo e poi abbandonate, spesso a causa di eventi naturali: una scuola media chiusa per una frana, un parco giochi in rovina a causa della diminuzione demografica… La testimonianza di queste zone di memorie perdute – che rievocano attuali problemi sociali del Paese – rimanda lo spettatore ad una consapevolezza shintoista, fortemente sentita dai giapponesi, per cui l’arco della vita umana non è altro che parte del ciclo degli eventi naturali e che ad esso appartiene, come ricorda la preghiera che Sōta recita ogni volta che chiude un portale. Suzume stessa ne diventerà consapevole, dovendosi confrontare nel progredire del viaggio con la ferita sopita della morte della madre, un trauma che riverbererà alla fine del film nel cuore della collettività giapponese quando il sito dell’ultima porta sarà proprio nei territori colpiti dallo tsunami del 2011.
Nonostante la cornice intensamente esistenziale e quasi apocalittica, la storia di Suzume non risulta pesante, ma anzi procede con ritmo veloce grazie a brevi intermezzi comici che alleggeriscono la narrazione: da momenti di commedia slapstick all’escamotage per rintracciare la dispettosa divinità gatto Daijin, grazie al suo profilo Instagram. Inoltre, durante le varie tappe del viaggio, il supporto che Suzume riceve da perfetti sconosciuti e i momenti di intima familiarità che condivide con loro costituiscono delle isole di caldo conforto che controbilanciano la gravità del viaggio.
Suzume non è una pellicola di facile comprensione, mettendo i suoi protagonisti in rapporto con il mistero della vita che non ha risposta, e forse è anche giusto che sia così. Tuttavia rimane un film godibile e memorabile, accessibile da un target teenager. Anche sfuggissero i diversi piani di lettura intrisi nel folklore nipponico, Suzume riesce a incantare il pubblico grazie al fascino dell’elevata qualità delle visual animate e all’empatica vicinanza per Suzume e Sōta, posti di fronte a un cruciale e sincero momento di crescita personale. Nonostante l’impossibilità dei protagonisti di trovare un senso alle catastrofi naturali e alle perdite dei propri cari, lascia speranzoso un intimo inno alla vita, veicolato dalla preghiera finale recitata da Sōta: “…La vita è una cosa fragile e passeggera. La attraversiamo con la morte sempre accanto a noi, ma comunque continuiamo a lottare con tutto quello che abbiamo. Combattiamo e speriamo di vivere anche solo per un altro momento. Quindi, o dei, vi prego, dateci questa possibilità”.
Mariapaola Della Chiara
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