I ricercatori universitari più sgangherati d’Italia sono tornati. E se nel primo capitolo Pietro Zinni e gli altri laureati disoccupati erano costretti a inventarsi una smart drug legale per ovviare al drammatico problema dell’assenza di lavoro, in questo secondo film arrivano addirittura a prestare le loro risorse intellettuali alle forze dell’ordine. Una poliziotta offre loro sconti di pena e ripulitura della fedina penale in cambio di un aiuto nella debellare lo spaccio di smart drug. Niente però andrà come previsto…
Fandango e Rai Cinema sfruttano l’imprevisto, ma meritato successo del primo capitolo per imbastire un’operazione inedita e coraggiosa, almeno per l’asfittico panorama produttivo italiano: mettere in cantiere non uno, ma due sequel, pensati, scritti e girati insieme al fine di ottimizzare i costi e massimizzare i profitti.
E se da un punto di vista produttivo questo è sicuramente un aspetto positivo, dal punto di vista drammaturgico Masterclass rischia di pagare un prezzo salato a questa operazione. Inevitabilmente risulta infatti un film di transizione. Sulle spalle ha l’arduo compito di rilanciare una storia in realtà già abbondantemente chiusa nel primo capitolo e traghettarla nel terzo. Questo si traduce in un inizio eccessivamente lungo e verboso, in cui tante, forse troppe, premesse vengono messe in campo e nuovi personaggi devono essere presentati. E questo inizio seduto finisce per sbilanciare anche il corpo centrale del film, che al contrario ha uno sviluppo fin troppo rapido per lasciare poi spazio a una coda che serve più ad alimentare le domande che traghettino gli spettatori nel terzo capitolo che a raccogliere quanto seminato.
A fronte di questi difetti Sibilia si conferma comunque sceneggiatore e regista abile, capace di creare situazioni dinamiche e gag action davvero inedite nel nostro cinema. I modelli di riferimento sono evidentemente Oceans’Eleven e Una notte da leoni e il confronto con il cinema a stelle e strisce per una volta non risulta impari.
C’è però un altro limite, più grave. L’obbligo del rilancio rischia di far smarrire per strada il vero punto di forza del primo capitolo, la denuncia ironica e pungente dello stato di coma del nostro Paese. L’idea comica di Smetto quando voglio fondava infatti le sue radici in una riflessione impietosa, ma onesta, del rapporto deludente che c’è tra scuola e mondo del lavoro. In questa seconda parte invece e, come sembra di intuire anche nella terza, i contatti con la realtà si fanno più labili, a favore di un’opera di maggior intrattenimento che però rischia di essere fine a se stessa.
Andrea Valagussa
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