Rama (Kayije Kagame) è una giovane scrittrice, vive a Parigi con il suo fidanzato e sembra poco interessata, rispetto alle due sorelle, ad occuparsi di sua madre. Rama, che forse non ha ancora detto a nessuno della sua gravidanza, sta scrivendo un libro sulla giovane madre senegalese (Guslagie Malanga), accusato di infanticidio, e si trasferisce a Saint Omer per seguire il processo.
Sul viso di Rama non ci sono espressioni che rendono visibili i suoi stati d’animo. Ha un compagno, un musicista affabile; a Parigi vivono due sorelle e sua madre. Non sorride, non si arrabbia, compie gesti ordinari fino a quando si trasferisce, per un brevissimo periodo a Saint Omer, un paesino della Francia dove ha luogo il processo alla giovane senegalese Laurence Coly accusata di infanticidio.
Tra avvocati, giudici e membri della giuria, c’è anche Rama, che fa parte del ristretto pubblico, perlopiù formato da donne. È lì per scrivere un romanzo, ispirato al personaggio di Medea, sul caso Coly.
Vincitore di due premi al Festival di Venezia (Leone d’Argento – Gran premio della Giuria e Leone del Futuro – Premio Venezia opera prima “Luigi De Laurentiis”) Saint Omer prende vita da un reale processo di una 36enne di origine senegalese che, d’inverno, uccise la figlia di 15 mesi abbandonandola su una spiaggia vicino a Calais. Dalla realtà, che la regista quarantatreenne conosce bene perché ha girato molti documentari prima di esordire alla finzione, ci sono solo i dettagli del tragico evento. Il processo, che occupa parte importante del film, restituisce ad ognuno dei protagonisti – che restano circondati, per quasi tutto il film, da un’aura ambigua – uno spazio necessario.
I sentimenti e i giudizi si alternano: dall’orrore per l’infanticidio all’odio per ciò che ha potuto scatenarlo, dal disprezzo per il compagno di Laurence, un adulto con moglie e figlia, menzognero e triste, fino al richiamo dell’esistenza della stregoneria.
Lo spettatore ascolta, si commuove, si inquieta, si sdegna. Segue la macchina da presa che osserva le due protagoniste, Rama e Laurence. Entrambe sono colte, sicure, introverse e non lasciano trasparire alcunché dei pensieri, dei loro sentimenti. Rama è scrittrice, Laurence è una dottoranda che non ha mai terminato la sua tesi filosofica su Ludwig Wittgenstein, il filosofo del linguaggio.
Sono due donne adulte, una che conosce della maternità la dolcezza, la tenerezza, la stanchezza e la disperazione dell’assassinio, l’altra che è affascinata dalla ineluttabilità contemporanea del mito di Medea.
Solo che la maternità non è solo un argomento di cui scrivere per Rama. La giovane, che sembra poco interessata a occuparsi di sua madre, non è del tutto un essere solitario: nel suo grembo da quattro mesi una nuova vita si sta formando.
Questo piccolo grande film, che disorienta nella scelta iniziale, quasi documentaristica del processo, esplode piano piano nella sua grandezza. Non è infatti un film sul processo creativo o giudiziario, sul bene e sul male, ma Saint Omer è piuttosto un film che scandaglia la grandezza della maternità, addentrandosi nelle pieghe dell’universo femminile senza adoperare il conciliante strumento della retorica e del perbenismo.
Emanuela Genovese
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