Dopo anni di vagabondaggio, John Rambo ha trovato la pace in un ranch in Arizona, dove ha fatto da padre putativo alla giovane Gabrielle, la nipote orfana della sua governante Maria. Un giorno però Gabrielle decide di andare in Messico a cercare il padre che l’aveva abbandonata tanti anni prima e viene rapita da un cartello che gestisce un traffico di ragazze destinate alla prostituzione. Rambo cerca di salvarla, ma quando lei perde la vita si scatena la vendetta…
Sono passati più 37 anni da quando Sylvester Stallone diede corpo al secondo memorabile personaggio della sua carriera (dopo il pugile Rocky Balboa) il reduce disadattato John Rambo, simbolo di una sconfitta mai digerita dall’America che non riesce ad accettare i suoi figli più problematici e finisce per trasformarli in nemici pubblici.
Come Rocky qualche anno prima era diventato il simbolo della voglia di riscatto dei perdenti, Rambo era il memento degli effetti a lungo termine della sconfitta anche morale in un’America ormai lanciata nel decennio della finanza e dell’edonismo.
Se quel film riusciva, attraverso il genere, a parlare con intelligenza delle ferite non rimarginate del conflitto vietnamita negli Stati Uniti reaganiani, al suo quinto episodio l’epopea di John Rambo si avvia a una ingloriosa conclusione in una pellicola che fa davvero pochi sforzi per trovare uno spunto più profondo al profluvio di violenza con cui inonda lo spettatore.
È un puro pretesto la ricerca del padre perduto da parte della giovane Gabrielle in un Messico da incubo, sono figurine di malvagità senza spessore e qualità i trafficanti messicani che la catturano per il loro traffico di prostituzione, è una figurina sbiadita pure la giornalista che salva la vita a Rambo e gli fornisce tutte le informazioni che il copione ritiene necessarie per scatenare il suo piano di vendetta.
Nella prima parte il quadretto bucolico del ranch dove Rambo vive addestrando cavalli è così zuccheroso da far rischiare il coma diabetico tra le reazioni. Una volta varcato il confine, invece, la pellicola cambia faccia e indulge prima nelle violenze subite sia dalla ragazzina che dal protagonista, per virare, nel finale, in una macabra variazione del sistema di trappole di Mamma ho perso l’aereo, con cui il nostro abbatte uno dopo l’altro i messicani che ha appositamente invitato a cercarlo.
Il carosello di modalità fantasiose con cui li elimina uno dopo l’altro ha qualcosa di inutilmente compulsivo, quasi che il film cercasse una sua giustificazione d’essere nella spettacolarizzazione della morte visto che non riesce a trovarla nella sua narrazione.
Il cinema Usa ci propone regolarmente e con discreto successo film d’azione iperviolenti più o meno sconclusionati (basti pensare al progressivo eccesso raggiunto da una saga come Fast and Furious), ma almeno in alcuni casi il carattere velleitario della trama viene riscattato da un gusto seppur minimo nella costruzione dei personaggi e delle loro relazioni e alleggerito da una dose di umorismo.
Due elementi che qui latitano totalmente e che lasciano lo spettatore con la fastidiosa sensazione di una pratica portata a termine in maniera meccanica e priva di anima, quasi frettolosamente, una colpa forse ancora più grave di fronte all’eredità cinematografica, nazional popolare che il personaggio rappresenta.
Ed è un peccato perché Stallone ha fatto certo un miglior servizio negli ultimi anni rivitalizzando la saga di Rocky e il suo messaggio di ruvido ottimismo, costruendosi una bella figura di mentore in Creed e Creed II, mentre qui presta la sua fisicità ormai stanca a un’operazione senza cuore e senza intelligenza.
Scegliere un film 2020
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