Il 13mo arrondissement (un po’ come i nostri quartieri o i “municipi” delle grandi città) è un affastellarsi di grattacieli abitati da giovani multirazziali in cerca di lavoro. Émilie, asiatica, pur avendo studiato Scienze Politiche, lavora in uno squallido call-center e trova, come coinquilino con cui dividere la casa della nonna – malata di Alzheimer – Camille, un giovane insegnante di lettere. I due hanno subito un’intensa relazione, ma lui non vuole alcun coinvolgimento e pretende di essere libero. A creare un triangolo amoroso giunge Nora, studentessa di legge proveniente da Bordeaux, dove lavorava come agente immobiliare, una ragazza molto inibita che ritrova la sua identità dopo aver intessuto una storia del tutto anomala con una lavoratrice del sesso on line. L’amore di Camille per Nora sembra lasciare Émilie nella desolazione e nella solitudine più triste, ma non sarà questo l’esito finale della storia.
È felice la scelta del pluripremiato regista francese di descrivere in bianco e nero il quartiere in cui ambienta il suo ménage à trois. I grattacieli coi nomi delle città olimpiche (da cui il soprannome Les Olympiades) e gli interni claustrofobici sono parte integrante del film e rappresentano un incombente personaggio “fisico”. Essi ospitano (a caro prezzo) le vite ordinarie di una giovane popolazione multietnica i cui colori della pelle sono volutamente uniformati dal viraggio della pellicola. Il contrasto è nei caratteri dei personaggi che, anche in questa asfittica periferia parigina, cercano di vivere un amore che duri e vada oltre le performance erotiche che così facilmente si possono instaurare. I nostri, infatti, non si innamorano inizialmente, ma consumano rapporti sessuali anonimi, così come le droghe dello sballo e la pornografia, per compensare la precarietà della routine e dei lavori occasionali; ma in ogni occasione manifestano la loro recondita insoddisfazione. Inoltre pesano i retaggi delle famiglie di origine. Émilie prima è restia ad andare a trovare la nonna all’ospizio, poi però rimpiange di non averla vista prima che morisse; Camille vuole affrancarsi dal padre vedovo e una sorella con una lieve disabilità. Il loro è un chiaro tentativo di essere monadi, capaci di bastare a loro stessi, ed è in fondo, lo stesso scopo, seppur attraverso un passaggio più eccentrico e tortuoso, che cerca di ottenere Nora, completamente inibita e bisognosa di far pace con la sua corporeità. Da questi presupposti si sarebbe potuto immaginare uno di quei finali-non finali, in cui nessuno risolve nulla e tutto rimane ineluttabilmente come in partenza. Invece l’esito del film rivela che anche questi giovani uomini e donne, apparentemente ridotti ad una vita fatta di rassegnazione, cercano e vogliono di più. Si potrebbe dire che non c’è sesso senza amore, che è poi la semplice versione vendittiana delle conclusioni del famoso sociologo Zygmunt Bauman sull’insufficienza delle “relazioni liquide”.
Nella manciata di mesi in compagnia dei tre personaggi (e anche della pornostar che denuncia il desiderio di uscire dal fittizio spazio di un monitor), ci accorgiamo di modificare il nostro giudizio e di non osservarli più dall’esterno come ingordi cercatori di compensazioni sessuali. Essi sì, hanno gravi lacune da compensare, ma il verdetto non è già scritto, la loro umanità, sotto una coltre di triste pessimismo, cerca una vita più autentica, in cui la verità dei sentimenti possa riprendere il posto che le spetta. Così, con un colpo di reni, la narrazione ci fa intravvedere che la natura umana sa andare oltre le costrizioni dell’ambiente tetro e dell’asfittico dovere prestazionale nel campo delle relazioni amorose. C’è un amore solidale e di amicizia che ha il sapore della gratuità e, con buona pace dei tanti disfattisti, forse, è proprio il punto da cui tutto può ricominciare.
Giovanni M. Capetta
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