1954, un’udienza a porte chiuse: Oppenheimer è sotto processo, accusato di simpatie comuniste e presunto spionaggio. L’indagine apre una finestra sul passato del noto scienziato, le sue idee rivoluzionarie, le sue amicizie e relazioni sentimentali, intrecciate nell’articolato e segreto progetto di Los Alamos dove fu costruita la prima bomba atomica; e dove venne dato il via a una nuova terribile era dell’umanità.
Oppenheimer è un film realistico, quasi “asettico”, e tuttavia carico di suspence. I personaggi sono psicologicamente credibili, il ritmo incalzante, sostenuto da una coinvolgente colonna sonora, a tratti un po’ invadente. La pellicola presenta tutti i pregi e i difetti di Nolan, ma per fortuna i primi prevalgono sui secondi. È noto che Christopher Nolan abbia un problema espositivo nei suoi film, specie da che non lavora più insieme a suo fratello. Tuttavia in Oppenheimer il regista inglese riesce a tenere le fila e non perdere l’audience per strada. Le vicende sono chiare, anzi, a tratti fin troppo, rischiando di rassomigliare più a un documentario che un film. Viene però in soccorso un intreccio a matriosca, stilema narrativo tipico di Nolan, dove il racconto si muove dentro non una, ma ben due cornici, l’inchiesta su Oppenheimer e l’audizione/inchiesta al Senato sul suo rivale politico Lewis Strauss, che deve ottenere la conferma della sua nomina a ministro.
Se Oppenheimer fosse una partitura, vi si potrebbe trovare la dicitura di tempo “Asciutto con inquietudine”. L’apparente freddezza di Nolan, infatti, non viene mai senza emozione. Anche in Oppenheimer è stato in grado di renderci partecipi della mente confusa, contraddittoria, combattuta, esplosiva: con una parola diremmo “inquieta”, del grande scienziato omonimo.
Le aspettative erano alte. Da una parte il nuovo biopic sul padre dell’atomica doveva misurarsi con pellicole da premio Oscar quali A Beautiful Mind, La teoria del tutto e The Imitation Game. C’era poi il tema della minaccia atomica, tornato a scaldarsi dopo le intimidazioni lanciate dalla Russia nel conflitto con l’Ucraina. E infine una pellicola girata a 70mm – invece del canonico formato 35mm – che lancia ancora la sfida contro il cinema digitale e le piattaforme della rete.
Tanta pressione, insomma; e dalla pressione nascono i diamanti, sebbene questo sia un po’ grezzo. Ma pur sempre un diamante. Oppenheimer è un film “grandioso”, nel senso più neutrale del termine. È la storia di un gruppo di scienziati che ben sapevano di essere sulla soglia di una nuova rivoluzione mondiale; forse la sua ultima.
Il film è adattamento dall’opera letteraria Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica. Il trionfo e la tragedia di uno scienziato. Chissà perché è stato scelto un titolo così brutto per la traduzione editoriale. Il titolo originale del libro era The American Prometheus. E qui dentro stava già tutto. Perché di cosa parla, in ultima battuta, Oppenheimer? Del terrore impotente, di un uomo che ha aperto i misteri dell’energia al mondo, e che facendo ciò lo ha condannato. Il fuoco di Prometeo, il vaso di Pandora. Grandezza e distruzione.
Oppenheimer era un uomo ambiguo; almeno, così lo dipinge il film. La sua mente combatteva assiduamente con una moralità “plastica”. Ci chiediamo più volte cosa lo spinga realmente: è il patriottismo? Il desiderio di successo? La lotta al nazismo? La fame di conoscenza? Oppenheimer appare costantemente astratto e scollegato dalla realtà. Un irresponsabile, insomma.
Eppure, solo lui, come racconta una bellissima scena con Albert Einstein, è stato in grado di immaginare il futuro, e accorgersi di che cosa avevano fatto. “Sono diventato Morte, il distruttore di mondi”.
Alberto Bordin
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