Quando diventa madre, la filmmaker Nanfu Wang, da anni trasferita negli Usa, si trova a riflettere sulla Politica del Figlio Unico, la campagna che la Cina mise in atto dal 1970 al 2005 per combattere il rischio della sovrappopolazione. Così, a partire dalle vicende della sua famiglia, Nanfu porta alla luce una storia fatta di indottrinamento, sterilizzazioni e aborti forzati fino al rapimento di bambini destinati alle adozioni internazionali che fruttavano denaro anche ai rappresentanti dello Stato.
Nasce da un’esperienza personale, la maternità, il documentario presentato al Sundance Festival che rievoca un periodo della storia cinese che sembra lontano e riguarda invece solo una generazione fa. Guardando il suo bambino, infatti, la filmmaker Nanfu Wang riapre lo scrigno dei ricordi della sua infanzia in un villaggio rurale della Cina, uno dei luoghi dove più forte si esercitò la pressione della propaganda (ma anche la coercizione fisica) per implementare una politica di controllo delle nascite radicale e violenta presentata come unica via per evitare la carestia nel paese.
Il documentario, diviso in sezioni, dall’esperienza personale di Nanfu (primogenita di una donna che ottenne eccezionalmente di avere un secondo figlio per avere il maschio) si allarga a quella della sua famiglia (dove una cugina femmina venne abbandonata a morire per consentire alla famiglia di tentare di avere il figlio maschio) e della levatrice del villaggio (per anni responsabile di migliaia di aborti anche in avanzato stato di gravidanza), che negli ultimi anni ha deciso di espiare i suoi peccati dedicandosi alla cura dell’infertilità.
La sua si contrappone all’esperienza di una delle tanti responsabili della “pianificazione familiare” che rivendica la giustezza di queste operazioni così come della sterilizzazione forzata di migliaia di donne e della distruzione delle case di chi si rifiutava di sottoporsi a tali pratiche
Nanfu lascia parlare la voce dei singoli individui e dall’esperienza dei responsabili dei villaggi emerge un diffuso senso di rassegnazione a una pratica che di fatto non solo portò alla morte di miglia di bambini, ma produsse una penalizzazione estrema della condizione femminile, a partire dall’uccisione delle bambine passando per la violenza sulle donne adulte.
La forza dell’ideologia è solo una parte di questo processo agghiacciante, le cui contraddizioni porta alla luce (in modo anche poetico) il lavoro di un artista che ha cercato di risvegliare le coscienze “esibendo” nel suo lavoro i corpi dei bimbi abortiti o uccisi dopo un parto indotto…
C’è anche lo scandalo dei bambini cinesi sottratti alle famiglie o raccolti per le strade dopo gli abbandoni forzati per essere poi “venduti” a famiglie straniere inconsapevoli con le adozioni internazionali, che Nanfu racconta attraverso le storie di una gemella che ritrova la sorella rapita anni prima e il lavoro di una coppia impegnata a ricostruire le tracce di questi bambini perduti.
È un percorso doloroso e commovente quello di questo documentario, che porta alla luce le contraddizioni di un regime che mette lo Stato sempre al di sopra dell’individuo.
Unica caduta di tono un commento verso la fine del percorso dove, in nome del rispetto per la libertà delle donne, si equipara gli abusi del regime maoista con la legislazione per la limitazione dell’aborto in America. Un ragionamento che stonerà a qualunque spettatore si sia lasciato toccare dal dolore per tante vite perdute in nome di un astratto concetto di bene comune.
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