Clara e Diego frequentano un centro diurno per persone con disturbi psichiatrici e hanno entrambi un passato drammatico: lei è lì a scontare una pena per aver dato fuoco a casa (con suo marito dentro), lui a causa delle sue nevrosi ha perso il lavoro (come chef), la moglie e soprattutto la figlia, la sua ragione di vita. Un giorno il dottor Paris, che guida la comunità terapeutica, decide di aprire il laboratorio di cucina al pubblico (i pensionati del quartiere) per valorizzare il talento di Diego e le qualità degli altri membri del centro. Le cose però prendono una piega inaspettata quando Clara, che tende a raccontare bugie e inventarsi cose, inizia a pubblicare sui social finte recensioni culinarie che parlano del Monroe, ristorante che però esiste solo nella sua fantasia. Incredibilmente, i feed back on line sono entusiasti e sempre più persone chiamano per prenotare. La voce così si sparge fino ad arrivare anche alle orecchie di Bianca, la figlia di Diego. Per lui è l’occasione perfetta per riconquistarla, allora l’idea prende corpo e dopo un’iniziale resistenza di Clara, il ristorante diventa realtà: nasce così il Monroe, che alla serata di apertura fa il tutto esaurito. Il successo del locale è inaspettato e giorno dopo giorno, nonostante qualche timida perplessità di Paris, le cose vanno sempre meglio. Quando si ha a che fare con una come Clara, però, l’imprevisto è dietro l’angolo…
Al suo terzo lungometraggio (ancora una commedia, dopo Moglie e marito e Croce e Delizia) il regista affronta un tema delicato come quello delle malattie psichiatriche con leggerezza e uno sguardo positivo sulla vita.
Da un punto di vista del mero realismo, si ha talvolta la sensazione che nella trama ci siano delle debolezze (in particolare nello sviluppo della vicenda del ristorante) perché alcuni snodi si dispiegano in modo un po’ troppo semplicistico e non sempre sono verosimili al cento per cento.
Nel complesso però, se si prende questo film come una favola moderna, ovvero come la storia d’amore quasi impossibile tra due persone ferite che la vita ha messo (quasi) ko, allora gli aspetti sopra accennati passano decisamente in secondo piano, perché questa è una storia di riscatto emotivamente coinvolgente, ci sono tante scene divertenti ma anche delicate nell’affrontare il dolore dei protagonisti e alla fine, anche grazie alla bravura degli attori, il film funziona.
In particolare è toccante scoprire a poco a poco, attraverso i dialoghi, che dietro ad un’apparenza fatta di tic, bugie e strane abitudini, c’è un mondo di desideri e sogni, angosce e paure, ma anche tanta tenerezza e consapevolezza del proprio vissuto.
E forse noi (chi guarda), grazie a loro (i protagonisti), realizziamo che da un certo punto di vista siamo tutti un po’ malati perché gli egoismi, le ipocrisie o l’infantile vittimismo che contraddistinguono i personaggi, sono gli stessi delle persone cosiddette normali. Il film, insomma, sembra quasi dire che la vera guarigione a cui sono e siamo chiamati, è la scoperta della migliore versione di se stessi, cioè quella più autentica, perché tutti noi ci costruiamo delle maschere per essere accettati e stare (ne siamo convinti) un po’ meglio in questo mondo. Come la Marilyn Monroe del titolo (e del nome del ristorante) che ha avuto successo per il suo aspetto ma in realtà non aveva gli occhi azzurri e nemmeno i capelli biondi.
E invece il film ci dice che possiamo essere felicemente noi stessi, lanciando un messaggio di speranza per tutti, anche per le esistenze più ingarbugliate, perché dobbiamo accettare che siamo fatti così, fragili ed imperfetti.
Gabriele Cheli
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