Marcel è un cane grigio, perlopiù silenzioso, educato ad essere un’artista di “strada” dalla sua padrona (Alba Rohrwacher). Lui è forse l’unico amato e desiderato da questa donna che ha una madre (Giovanna Ralli) e una figlia (la giovane Maayane Conti già protagonista del corto Being My Mom, esordio di Jasmine Trinca). La bambina vive con la madre. Vorrebbe essere amata e desiderata da lei come lei desidera Marcel, ma sembra che nel suo orizzonte sia costretta a questo purgatorio di affetti.
Marcel! è l’esordio al lungometraggio di Jasmine Trinca, segna il ritorno di Giovanna Ralli sul set ed ha avuto uno posto eccezionale tra i film della Séances Spéciales del Festival di Cannes. Non è un film convenzionale, parla al pubblico con una storia semplice e cervellotica allo stesso tempo, profonda e per certi versi autobiografica.
Nella vita dei suoi personaggi Jasmine Trinca inserisce il suo mondo di artista e di donna. Quando all’improvviso, dopo una performance (anche se la padrona odia la parola performer) Marcel scompare, rimangono sulla scena del film una madre e una figlia. La macchina da presa si insinua nella loro vita e come in un film muto racconta per capitoli la vita di entrambe.
Gli uomini sono totalmente assenti. Assenti non tanto sulla scena, quanto nel cuore della storia: ci sono, sì, ma si alternano in posizioni secondarie, tra bambini, amici e nemici della ragazzina, anziani innamorati della nonna o della figlia, pseudo artisti che vivono nel casale di Valentina Cervi.
Quello che vediamo sempre è l’immagine del padre della bimba, un uomo bellissimo, la cui fotografia sovrasta il letto di lei.
I legami di sangue sono il fil rouge di questa storia dove una madre, anoressica nello stile (non la si vede mai a contatto con il cibo, in casa non si avvicina alla cucina o al frigorifero, ma alla macchina da cucire per un abito di scena) cerca il suo futuro, non quello degli altri, nella “sublime” arte della divinazione.
L’assenza, perciò, sembra il cuore di questa storia girata in una Roma deserta, tra i quartieri Testaccio e Ostiense. La bambina non sorride mai, ama suonare la tromba, uno strumento molto più grande del suo corpo esile e guarda, spesso, fissa la nonna senza rivolgerle la parola.
Sembra disprezzare le attenzioni che riceve (“non correre” le grida la nonna, “tu non dormi mai” le dice in macchina la madre) e vorrebbe solo una cosa: l’amore di una madre che riserva per lei l’unico insegnamento che la guida, “all’arte si deve la vita”.
Se si potesse descrivere il film in una parola si utilizzerebbe proprio l’arte. Ma l’arte è solo faro di una vita che rischia di essere invivibile (e probabilmente lo è) e di un’incapacità strutturale più che volitiva di un legame che di naturale non ha niente se non il sangue. Un film “ossimoro”, cervellotico ma difficile da dimenticare, che spesso ritorna nella mente dello spettatore con le sue verità e le sue crudezze.
Emanuela Genovese
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