In una Scozia lontana nel tempo, Macbeth, barone di Glamis, torna dalla guerra vittorioso insieme al compagno d’armi Banquo. Sulla strada verso casa, i due incontrano una strega sul loro cammino, che fa loro tre predizioni: Macbeth diventerà prima barone di Cawdor e poi Re, mentre Banquo sarà padre di futuri re.
Giunti al cospetto di Duncan, Re di Scozia, Macbeth e Banquo apprendono che il barone di Cawdor ha tradito la corona in guerra e per questo verrà giustiziato. Il suo titolo passerà a Macbeth, che vede realizzarsi il primo vaticinio della strega e sfoga in una lettera a sua moglie tutta la sua impazienza perché si avveri anche il secondo. Lady Macbeth invita lo sposo a non essere codardo e prepara insieme a lui il primo di tanti orrendi delitti.
Quando nel 2019 fu annunciato l’ennesimo adattamento della tragedia immortale di Shakespeare, la novità che saltò all’occhio era la regia in solitaria di Joel Coen. Pertanto, uno dei motivi per attendere questo Macbeth era quello di vedere all’opera uno solo dei fratelli Coen dietro la macchina da presa e, soprattutto, dietro quella da scrivere. Perché quando si tratta di Shakespeare, si ha a che fare con i dialoghi del più grande drammaturgo passato alla storia e i rischi di una mera riproposizione da un lato e di un sacrilego stravolgimento dall’altro sono sempre dietro l’angolo.
Coen risolve il dilemma amletico concentrandosi sulla trama principale della tragedia in tre atti e sui suoi personaggi più importanti, condensando in poco più di un’ora e mezza il dramma di Macbeth e delle sue vittime più sofferenti. Una delle scene meno conosciute della tragedia, quella che vede protagonista Lady MacDuff e i suoi figli, è un esempio di come Coen abbia selezionato i momenti di maggiore empatia per avvicinare il pubblico ad una delle storie più crude del Bardo.
I dialoghi delle scene selezionate rimangono intatti, ma a parlare sono soprattutto le immagini di Bruno Delbonnel, direttore della fotografia che già collaborò con i Coen in A proposito di Davis e La ballata di Buster Scruggs. Delbonnel sceglie il bianco e nero e i teatri di posa per inscenare Macbeth in una dimensione onirica, un incubo teatrale che fa da perfetta cornice all’ambizione prima lucida e poi sfrenata dei coniugi Macbeth, resa credibile dalle solide interpretazioni di Denzel Washington e Frances McDormand.
Altri grandi registi hanno portato Macbeth sullo schermo, ognuno con intenzioni diverse: Orson Welles fu il primo ad averne l’onere e l’onore, Akira Kurosawa lo rese suo ambientandolo nel Giappone medievale ne Il trono di sangue, Roman Polanski diresse il suo Macbeth l’anno dopo il brutale assassinio della moglie Sharon Tate, elaborandone il lutto riempiendo il film di toni cupi e violenza.
Recentemente è toccato a Kenneth Branagh, forse il più shakespeariano di tutti, e a Justin Kurzel, che ci ha regalato una versione sicuramente spettacolare ma meno evocativa di quella di Coen, che ha il merito di aver esaltato il teatro con il cinema. Perché questo Macbeth omaggia il medium del film come metodo di rappresentazione altro rispetto alla messa in scena sul palco, utilizzando gli strumenti dell’assenza di colore, degli effetti speciali e della fotografia come sostegno al pubblico per entrare nell’immaginario di Shakespeare. La celebre scena del coltello che invita Macbeth ad essere impugnato è la scoperta del fuoco: era già lì, ma qualcuno doveva inventarla. Chi legge e ama Shakespeare si è sempre immaginato l’avanzata di Macbeth verso la perdizione come l’hanno ripresa Coen e Delbonnel: immaginata, ma mai vista.
È questo quello che fanno i grandi registi: mostrano sullo schermo pensieri e emozioni, concretizzandoli in un’esperienza prima di tutto visiva. Qualcuno avrebbe scritto che danno sostanza ai nostri sogni: di sicuro il cinema gli sarebbe piaciuto un sacco.
Claudio F. Benedetti
Tag: 5 Stelle, Drammatico, Shakespeare, teatro