Scampati agli attacchi degli Orchi, Bilbo, Gandalf e il gruppo dei nani guidato da Thorin Scudodiquercia vengono aiutati dal mutaforme Beorn a raggiungere Bosco Atro, dove li attendono altre sfide. Mentre Gandalf è chiamato ad affrontare il misterioso Negromante a Dol Guldur, Bilbo e i nani si scontrano prima con dei ragni mostruosi e poi vengono catturati dagli elfi silvani di re Thranduil, che offre a Thorin un ambiguo accordo. Sfuggiti alle sue prigioni grazie all’intervento di Bilbo, i nani giungono infine alla Montagna solitaria, dove li attende il drago Smaug e l’archengemma che Thorin brama con tutto se stesso per unire i nani sotto il suo comando…
Molto più dinamico e avventuroso del primo capitolo della nuova trilogia di Peter Jackson (che qui si regala un cameo à la Alfred Hitchcock nella sequenza iniziale), questo secondo film ha tutti gli ingredienti per accontentare gli appassionati di Tolkien e di fantasy in generale. Il film, oltre a essere un bell’esempio di intrattenimento, è anche un racconto capace di trattare attraverso “figure” (mai usare il termine metafora, che Tolkien odiava a proposito dei suoi racconti, considerandolo pericolosamente didascalico e nemico della libertà dell’invenzione fantastica) temi universali e ponderosi come la responsabilità e la lealtà, la lusinga ambigua del potere, la tensione tra l’illusoria difesa della propria sicurezza e il dovere di lottare per una pace più ampia e universale.
In questo fedele all’impostazione del romanzo di Tolkien (che, ricordiamolo, fu scritto molto tempo prima de Il signore degli anelli e presenta rispetto a esso alcune discrepanze di tono e contenuti, abilmente superate da Jackson e compagni ricorrendo ad altri materiali tolkieniani e a una buona dose di invenzione), la storia di Bilbo presenta gli elfi in una luce meno rassicurante e più ambigua degli eroici guerrieri del romanzo maggiore. C’è una vecchia conoscenza, Legolas, già straordinario arciere, qui ancora ben lontano dal rapporto di amicale rivalità con Gimli, ma soprattutto suo padre Thranduil, un monarca ambiguo nella gestione del suo potere, capace di tradire promesse e incline agli intrighi e alla violenza. Legolas, poi, viene coinvolto dagli autori in uno strano e spurio triangolo con la guerriera elfa Thauriel (personaggio totalmente inventato) e il più avvenente e alto dei nani, un elemento che ha fatto gridare allo scandalo i puristi e che a tratti fa sorridere anche gli spettatori più disponibili, ma che sospettiamo darà i suoi frutti nel capitolo finale.
Anche gli uomini, del resto, non fanno una bella figura in questo affresco: la città di Pontelagolungo è una specie di piccola Bruges in decadenza (i richiami iconografici, nella struttura e nell’architettura, come nell’abbigliamento del governatore, sono fiamminghi), a capo della quale c’è un Governatore corrotto e tirannico che paventa possibili nuove elezioni e si guarda dall’unico uomo in grado di contrastarlo, l’eroico barcaiolo Bard, all’occorrenza contrabbandiere e alleato riluttante dei nostri.
Ma, come il titolo annuncia, in tanto profluvio di avvenimenti ed effetti speciali, la vera star della pellicola è il drago Smaug (nell’originale a dargli la voce è il bravissimo Benedict Cumberbatch, che la presta anche al misterioso Negromante), la creatura mostruosa che si nasconde nella montagna e che è la nemesi di Thorin, cui ha rubato il regno e ucciso parenti e amici. L’incontro tra Bilbo (che è stato assunto dalla compagnia come scassinatore e che ha l’incarico di recuperare la mitica archengemma) e la bestia è spettacolare come pure la caccia e lo scontro successivo con i nani nelle viscere della montagna (che insieme alla fuga nei barili vale il prezzo del biglietto in 3D).
Smaug, però, come nelle migliori favole, non è solo una bestia mostruosa da combattere, ma incarna l’esito più terribile della tentazione della ricchezza e del potere che aleggia su molti personaggi, soprattutto su Thorin, già nel primo capitolo una figura dai tratti potenzialmente tragici, che qui comincia a mostrare i segni dell’ossessione che farà insieme la sua grandezza e la sua dannazione.
Quando il diritto a regnare si trasforma in ossessione di dominio, quando la volontà di vittoria implica il sacrificio di chi pure ci è stato compagno (il fatto di definire le persone in base alla loro funzione anziché al loro nome è un piccolo tema ricorrente e significativo), il pericolo di trasformarsi in qualcosa di molto vicino al proprio nemico diventa tangibile e urgente. Un pericolo da cui non è esentato nemmeno il solitamente amabile Bilbo (Martin Freeman, ormai totalmente compenetrato nella parte), che si mostra capace di usare l’anello trovato nelle viscere delle Montagne Nebbiose a beneficio dei compagni, ma è a sua volta tormentato da un’ansia di possesso che lo spinge alla menzogna e alla violenza, trasfigurandone i tratti e il carattere.
Le profezie, come spesso accadeva nella tragedia greca e nelle saghe nordiche tanto amate da Tolkien, sono strumenti pericolosi e ambigui: promettono e spingono all’azione, ma richiedono equilibro e meditazione per non trasformarsi in maledizioni. Non è per caso, dunque, che Jackson, prendendosi libertà rispetto ai toni giocosi dell’originale, inserisce una linea più dark destinata a fare da ponte verso la trilogia de Il Signore degli Anelli: mentre nani e hobbit sono impegnati contro il drago, infatti, Gandalf affronta una minaccia oscura e nascosta.
Il racconto, dunque, si fa più articolato e complesso, senza per questo inficiare il ritmo della storia, che alterna momenti di azione travolgenti e altri elegiaci e meditativi, e si permette, proprio come i migliori cantastorie sapevano fare, di lasciare lo spettatore nel bel mezzo della storia, con un drago vendicativo in volo e il mondo in pericolo. Non resta che aspettare, sull’orlo della poltrona, per un anno che sarà lunghissimo a passare….
Scegliere un film 2014
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