In un cadente casolare nei pressi del lago Trasimeno, l’apicoltore tedesco Wolfgang dirige con piglio autoritario, anche se non sempre autorevole, una famiglia allargata che, per decisione del capofamiglia, si tiene lontana dalla modernità in agguato. Angelica, la madre, a volte comprende, altre volte tollera, e sempre compensa con dolcezza femminile, per le quattro figlie, le mancanze dettate dalle spigolosità del suo uomo. Con loro vive Cocò, una giovane donna parente o forse amica della coppia, che fa da sorella maggiore o da zia alle bambine, la più grande delle quali, Gelsomina, ha dodici anni e forse non vuole passare il resto della sua vita tra arnie e smielatori.
Opera seconda di Alice Rohrwacher, dopo il controverso Corpo celeste, Le meraviglie è un oggetto affascinante e misterioso, che i critici quasi all’unanimità hanno battezzato come capolavoro e che la giuria del Festival di Cannes ha valuto omaggiare con il prestigioso Gran Prix. Protagonista del film è una famiglia, un microcosmo autosufficiente in cui il padre e la madre, lui tedesco (Sam Louwyck) e lei italiana (Alba Rohrwacher), parlano tra di loro in francese. Nulla sappiamo del loro passato, che crediamo possa essere stato internazionale, avventuroso e inebriante. Il loro presente obbedisce invece ai ritmi impegnativi e ai dettami della campagna, alle esigenze degli animali e alla vita industriosa delle api, che la loro primogenita Gelsomina, di appena dodici anni (Maria Alexandra Lungu), dimostra di conoscere e saper gestire meglio di chiunque altro (si tratti di ricondurre nelle arnie le api fuggite sugli alberi, o di estrarre i pungiglioni dal collo di suo padre senza fargli male…). Fuori, da qualche parte, ci sono il mondo, il futuro, le norme europee in base alle quali ristrutturare il laboratorio di produzione del miele e, soprattutto, c’è la televisione, una malia irresistibile per le giovanissime figlie di Wolfgang e Alice, impersonata dalla soubrette di una tv locale (una convincente Monica Bellucci) che fa da madrina a un concorso a premi. Le ragazzine la incontrano, innamorandosene, abbigliata approssimativamente come una divinità etrusca, nei pressi di una fonte usata come set di uno spot del “Paese delle meraviglie”, una trasmissione televisiva con concorso annesso, che dovrebbe premiare una famiglia della zona produttrice di prodotti tipici. Gelsomina, soprattutto, s’innamora dell’idea che la sua famiglia partecipi al concorso, non tanto in vista di un riscatto economico (che pure auspica per sé e per tutti), né per un banale desiderio di evasione o di ribellione (che contrasterebbero con il senso di responsabilità e l’etica del lavoro che la contraddistinguono). Al fondo del suo bisogno, più genuinamente, c’è la curiosità di partecipare a una realtà che esiste, inesplorata e attraente, estesa da qualche parte oltre i confini angusti posti dalle scelte di suo padre (cui accede ogni tanto, quasi di nascosto insieme a una sorellina, attraverso le canzoni ascoltate alla radio), una curiosità che in nessun momento e in nessun modo vede come alternativa o inconciliabile al bene e all’affetto di cui gode tra i suoi familiari. La ragazza, insomma, non si sottrae al senso del dovere ma s’interroga, con orizzonti più ampi di quelli che vive normalmente, su quale sia il bene suo e della sua famiglia.
Una storia ubicata “da qualche parte dopo il Sessantotto” che, secondo le intenzioni dell’autrice, parla di desiderio, di utopia (quella di restare per sempre ai margini del mondo) e di sconfitte (ogni riscatto è possibile solo interiormente) ma anche di unità familiare e di perdono. La famiglia è l’unica ancora di salvezza per questa umanità sospesa tra passato e presente, un tempo indistinto accerchiato dalla contemporaneità, dove la campagna sembra rovinata per sempre dallo sfruttamento di chi cede al miraggio dei soldi da fare in fretta, cui solo Wolfgang e la sua piccola tribù sembrano voler mettere un argine. Una periferia geografica ed esistenziale dove gli errori si pagano e le sconfitte si accettano con dignità e senza rancori o rimpianti; un luogo forse scomodo e arretrato ma in cui sentirsi sempre a casa. “Proprio quella che nel Sessantotto tanto volevano spaccare – ha detto la regista a proposito dei suoi personaggi e di una vicenda in parte autobiografica – ora è la loro arca di Noè, il loro unico riparo. Loro sono una famiglia”.
Un film fatto forse per piacere più alle giurie dei festival che al pubblico pagante (che potrebbe trovarlo irrisolto o noioso) ma che ispira benevolenza per lo sguardo lieve, l’afflato poetico che non diventa mai di maniera, e la saggezza con cui sa tenersi equidistante dai luoghi comuni, sia quelli sul rapporto tra genitori e figli, sia quelli sulle utopie bucoliche. Aperto a interpretazioni è il finale, che sceglie di scolorare verso la metafora e l’ermetismo. Le meraviglie – titolo ben pensato, tra l’altro – da un lato rappresenta davvero l’altra faccia della Grande bellezza (là la vacuità che viene a noia, il dondolio continuo tra sublime e scurrile, la “crema” della società che a furia di allontanarsi dalle radici ha perso ogni criterio di giudizio; qui la concretezza del vissuto quotidiano, la saldezza dei legami di un’umanità verace, il tentativo di non perdere contatto con un centro di gravità e con le sue tradizioni costruttive). Dall’altro lato, invece, proprio come il film di Paolo Sorrentino, si perde in qualche simbolismo di troppo (là compare una giraffa, qua un cammello: in entrambi i casi vigila il nume tutelare di Federico Fellini) e un finale spiazzante di grande suggestione ma che in qualcuno potrà generare un senso di distacco dal resto della storia. Gli amanti del cinema d’autore, comunque, quelli che apprezzano che il finale di un film faccia compagnia per giorni proprio per la sua non immediata decifrabilità, non resteranno delusi.
Scegliere un film 2014
Tag: 3 stelle, Drammatico