Mia è un’aspirante attrice che sbarca il lunario lavorando al bar degli Studios. Sebastian un musicista appassionato di jazz che suona al pianobar ma sogna di aprire un suo locale. I due si incontrano e si scontrano a Los Angeles fino a innamorarsi, condividono le loro passioni e i loro sogni, ma saranno proprio queste a mettere alla prova il loro amore.
Terzo film del giovane regista prodigio Damien Chazelle (suo il notevole Whiplash, recensito in Scegliere un film 2015) La La Land è stato il fenomeno della stagione cinematografica appena trascorsa. Dopo aver aperto in gloria la Mostra del cinema di Venezia e aver proseguito la sua corsa vincendo il premio del pubblico a Toronto e accaparrandosi un numero record di Golden Globe e di nomination agli Oscar, si è visto soffiare il premio come miglior film sull’onda, probabilmente, di un politically correct imperversante, che lo ha considerato (sbagliando) solo una piccola storia d’amore in un musical senza rilevanza sociale.
La pellicola di Chazelle è in realtà molto più di questo: un canto d’amore al cinema e a un genere che lo ha rappresentato nella maniera più classica e sfrontatamente ingenua, ma anche una riflessione sui sogni, le vocazioni e l’amore, e come questi si intreccino e confliggano nel plasmare le scelte e la vita.
Un tema che, in modo più violento e tragico, Chazelle aveva già affrontato anche in Whiplash. Sebastian, in fondo, non è che la versione più ironica ed elegiaca del batterista di quella pellicola, ma non è meno fondamentalista di lui nella devozione al proprio sogno. È un intelligente paradosso che sia il suo ex amico e collega di colore a rinfacciargli un passatismo che rischia di seppellire ciò che ama di più e a dargli una possibilità di futuro aggregandolo a una band che trasforma il jazz in un mix pop che poco ha a che fare con i club fumosi e malinconici di Sebastian.
Mia, a confronto, ha un approccio molto più “laico” alla propria vocazione di attrice; sarebbe probabilmente felice anche se ottenesse una parte in una serie di second’ordine (i suoi provini sono piccoli e riuscitissimi momenti di noncurante cinismo hollywoodiano) ed è solo l’incontro con Sebastian a darle il coraggio di mettere in gioco tutta se stessa, dando in pasto al mondo i suoi pensieri più profondi ed esponendosi alla possibilità del fallimento.
Quel fallimento che Sebastian sembra corteggiare con un accanimento sospetto e che invece per lei sarà la chiave per lanciarla verso un successo inaspettato. The Fools Who Dream, la canzone che costituisce il provino finale di Mia, è anche quella che dà il senso di tutta la pellicola (e la preferita del suo autore Justin Hurwitz, anche se a vincere l’Oscar è stata l’altra canzone in gara, l’elegiaca City of Stars): i sogni, perseguiti senza badare al fantasma dell’insuccesso o del ridicolo, sono la stoffa dell’essere umano, l’unica molla per poter cambiare il mondo. È con la loro fragilità a volte tragica che i sognatori possono regalare al mondo qualcosa di veramente nuovo e sperare di cambiarlo.
Il percorso amoroso di Mia e Sebastian è raccontato con una ingannevole linearità (in fondo non è che una variante del luogo comune della romantic comedy di chi non si sopporta al primo incontro ed è destinato ad amarsi) impreziosita da numeri musicali che hanno il romanticismo lieve e incantato dei migliori musical degli anni Quaranta e Cinquanta e che traspirano una devozione assoluta che impedisce alle numerosissime citazioni di diventare una semplice maniera.
La pellicola, del resto, è anche una collezione di pezzi di bravura cinematografica, a partire dall’apertura, un balletto che si svolge nel bel mezzo di ingorgo autostradale girato in un piano sequenza per la cui ingannevole leggerezza si potrebbe giustamente impiegare il termine sprezzatura. È anche la chimica tra i due protagonisti (quella che già avevano dimostrato in una commedia romantica solo all’apparenza leggera come Crazy Stupid Love) a rendere indimenticabili i duetti, si tratti dell’innamoramento a ritmo di tiptap sullo sfondo di un tramonto losangelino, o di un ballo tra le stelle del Griffith Observatory. L’imperfetta armonia dei loro balli sarebbe stata, in altri tempi più innocenti e felici, la condizione sufficiente per garantire a Mia e Sebastian la felicità per sempre.
Oggi, in tempi di relazioni liquide e di post modernità, l’happy ending forse lo può concedere solo quell’immaginazione che hafatto la grandezza della Hollywood classica e cui Chazelle fa un emozionante omaggio nel montaggio finale, una proiezione della vita attraverso il filtro del grande schermo, un grandioso what if che ci ricorda come la vita sia fatta di scelte e occasioni, ma, anche, in fondo, la promessa che ciò che è entrato nella nostra vita e l’ha cambiata resta sempre misteriosamente lì a farci compagnia e a darci il coraggio di volare senza ali.
Laura Cotta Ramosino
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