Cameron Post è omosessuale. Ha bisogno quindi di essere rieducata e il centro God’s Promise, per la zia, dovrebbe avere tutte le carte in regola.
Il tema è difficile, contemporaneo e non banale. Cameron Post (Chloë Grace Moretz), una ragazzina omosessuale che abita con la zia giovane e ossessionata dalla pratica religiosa, vive una doppia vita. Quella che vogliono la zia, i suoi amici e il suo fidanzato, e poi quella che vuole lei. Doppiamente e sapientemente gestita, l’esistenza di Cameron è conosciuta solo dall’amica Coley, anche lei omosessuale. Ma la passione è difficilmente nascondibile. Così quando le due vengono sorprese in macchina dal ragazzo di Cameron, scoppia il finimondo. L’amica Coley si scusa, si allontana e si acquieta. Cameron, invece, si zittisce e accetta la decisione della zia di portarla fuori città, al centro di recupero God’s Promise (“la promessa di Dio”, ma quale?) che ha un motto: «Pray the Gay Away», gioco di parole con the way away, ovvero la “la via d’uscita” per cui la preghiera diventa necessaria. Perciò la diseducazione del titolo e anche del romanzo da cui il film è tratto (un testo di finzione scritto da Emily Danforth, ispirato ad alcuni fatti o situazioni realmente avvenuti) dovrebbe essere un’educazione verso se stessi e la realtà che ci circonda. Le regole però, come enunciato dal nome del centro e dallo stesso motto, sono arcaiche, bigotte, una caricatura estremizzata di un certo cristianesimo oltranzista. Non si possono avere i capelli lunghi, non si può ballare, non si può ascoltare il rock, si deve ubbidire ai professori e ai loro illuminati saperi, come racconta uno dei direttori, Rick (John Gallagher Jr.), che dall’omosessualità è uscito con aiuti e canti. Sì, perché lui canta testi spirituali di vago sapore protestante e mieloso, accompagnato dalle decisioni rigide e imperiose della seconda dirigente Lydia Marsh (Jennifer Ehle). E i ragazzini del centro ascoltano, ridono, fumano canne di nascosto. Sono tutti da “educare”, ma non tutti sono, giustamente, permeabili.
E Cameron lega con i ragazzi che sono chiaramente distanti dalle idee di Rick e Lydia. Perché sono non allineati, pieni di vita e hanno le idee chiare. Gli altri invece subiscono il controllo dei dirigenti, si piegano al senso di colpa nei confronti di Dio, riescono a odiare se stessi perché in definitiva non riescono a trovare uno spiraglio nei legami parentali giudicanti o nell’amicizia.
Il film di Desiree Akhavan (americana di origini iraniane) contrappone le scelte dei ragazzi, che risultano in qualche modo autentiche e sincere, anche se discutibili dal punto di vista umano, alle scelte degli adulti ossessionati dal peccato, da un’etica che parla o canta di Dio, ma che di Dio ha ben poco. Forse si vuole mostrare l’ossessione dei gruppi religiosi che vogliono denunciare, sempre e comunque, l’omosessualità come il male assoluto del mondo (ma implicitamente si getta discredito su qualsiasi tentativo di superamento dell’omosessualità, dimenticando che invece è successo ad alcune persone nella vita reale, che hanno testimoniato poi un senso profondo di cambiamento) o forse si vuole mostrare la costrizione e la reclusione dei ragazzi omosessuali o con altre dipendenze, non compresi o abbandonati dai loro stessi parenti.
L’ironia, che lascia il posto poi anche alla tragedia, non ha sufficiente spazio e necessità narrativa. Eppure il film ha vinto il Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival. Tuttavia non ha forza: l’adulto è sempre esasperante, i protagonisti hanno sempre ragione. E si rischia di guardare con più superficialità l’omosessualità: un tema ovviamente delicato, per credenti e non credenti. Il film quindi risulta essere programmatico e alla fine poco interessante: non si può non denunciare chi come parenti o docenti del God’s Promise agisce reprimendo con immotivate ragioni. E non si può non stare dalla parte di Cameron Post, nonostante i suoi errori.
Scegliere un film 2019
Tag: 1 stella, Drammatico, Sessualità