La storia di un mito: dell’uomo che ha inventato (con l’amico Wozniak) il personal computer e creato la Apple, che ha ideato l’iPod, iTunes e l’iPad, che è stato nume tutelare della Pixar, che si è arreso al cancro, non prima di averlo quasi vinto e di aver pronunciato un leggendario discorso, lasciando in eredità al mondo l’idea che tecnologia ed estetica, informatica e creatività, digitale e facilità d’uso degli apparecchi devono essere una cosa sola. Soprattutto, che bisogna “restare affamati, restare folli”: Stay hungry, stay foolish. Di questa parabola il film sceglie di raccontare una parte: dagli anni dell’università, nei primissimi Settanta, al 1997 quando, tornato al comando della sua azienda dopo esserne stato estromesso, Jobs la rilancia nell’olimpo dei marchi globali come un fenomeno economico e culturale, simbolo di pionierismo, sovversione degli schemi, libertà espressiva.
Le grandi imprese sono compiute da fuoriclasse, personalità irripetibili cui si devono perdonare le debolezze, prezzo accettabile se la posta in palio è il progresso dell’umanità. È il messaggio più o meno intenzionalmente espresso da una pellicola che manca il bersaglio, non riuscendo a guardare in profondità nell’esistenza di Jobs.
I migliori sceneggiatori di storie biografiche sostengono che è specifico di questo genere cinematografico interrogarsi sulla riuscita morale della vita dei personaggi storici. Chiedersi se, al di là delle gesta pubbliche, vicende umane come quelle di John Nash, di Giorgio III d’Inghilterra o di Mark Zuckerberg – per citare i protagonisti di tre riuscitissimi biopic – suggeriscono un giudizio di redenzione o di condanna. Un film biografico, cioè, è chiamato a sondare quale particolare, intima battaglia tra vizi e virtù, fragilità e forza d’animo sia il cuore dell’avventura umana dei grandi uomini che hanno calcato la scena del mondo.
Qual è dunque il segreto che spiega il senso della vita eccezionale di Steve Jobs? Risposta non pervenuta. Il film di Stern sulla questione sorvola, piuttosto ingenuamente (è stato prodotto da una casa editrice che si è voluta lanciare nel business del cinema, affidando lo script a un proprio dipendente, al suo esordio nella sceneggiatura). Tra l’incipit – Jobs che presenta l’iPod – e il finale – Jobs che, tornato in sella, registra le parole di un celebre spot inneggiante a chi vuole cambiare il mondo – nella storia in flashback tanti slanci imprenditoriali, tanti scontri con collaboratori, amici, manager, amministratori delegati, ma poco dramma vero. Eppure l’uomo ne avrebbe offerto ricchi spunti: dato in adozione appena nato, un rapporto profondo con il padre che lo cresce, un trauma da abbandono portato dentro e la difficoltà di riconciliarsi con genitori biologici ritrovati da grande, il rifiuto giovanile di accettare la gravidanza della compagna e di riconoscere una figlia con cui per anni non ha rapporti, un carattere di ferro, ma emotivo (se messo alle corde piangeva davanti a tutti) e irascibile, spietato nel mettere da parte chi non gli serviva più tanto quanto nel caricare il team di lavoro su un progetto.
Nel film questi aspetti sono, più o meno, presenti tutti, ma non è messa a fuoco la vertenza morale loro sottesa, lo scontro tra valori che li attraversa e li tiene insieme: in poche parole, il tema. Così ci sono le cose cattive, molto cattive, messe lì, isolate (scacciare la madre di tua figlia perché è incinta, calpestare le relazioni umane). Ci si passa sopra rapidamente per soffermarsi su quelle positive che si conta piaceranno al pubblico (l’imprenditore visionario, il nemico della mediocrità, il negoziatore spregiudicato, il ragazzo che insegue un grande sogno).
I momenti peggiori sono le scorciatoie. Nella prima parte, l’enfatico montaggio che, mescolando insieme il trip da droghe sintetiche, le scene del viaggio in India, il pensiero dell’adozione, vorrebbe ovviare in modo sintetico alla spiegazione dell’origine del fenomeno Jobs. Come a dire: la sua eccezionalità è stata in qualche modo il frutto di una combinazione di fattori disparati. Ma lo spettatore non voleva una panoramica approssimativa. Voleva scoprire un dettaglio di carattere lucido, incisivo, che rendesse conto dell’energia e delle cadute del protagonista.
Ancora, nell’ultima parte. Dopo aver lasciato Jobs solo e “licenziato”, con un’ellissi temporale lo ritroviamo finalmente in pace con se stesso, felicemente sposato, affettuosamente ricongiunto con la figlia ripudiata, pronto per andare alla riconquista della Apple. Ma come? Il bello del film doveva essere proprio assistere alla lotta per questo cambiamento, alla fatica di rinascere diverso e migliore, e si omette di mostrarlo. Come vedere una partita di calcio saltando l’azione del goal decisivo.
La messa in scena (cast, costumi, ricostruzione ambientale, fotografia) è di livello. Kutcher è bravo a immedesimarsi nel personaggio, a rifarne la camminata strana con il passo corto e le spalle anchilosate. Ma prevale l’impressione di un’assoluzione preventiva, di un’agiografia troppo facile. Uno come Jobs poteva ispirare di più.
Scegliere un film 2014
Tag: 3 stelle, Biografico, Drammatico