Nel 1917, l’esercito francese arruola con la forza giovani senegalesi e di altri Paesi del Nord Africa come soldati nella Grande Guerra. Thierno, 17enne, viene catturato e così suo padre, Bakary, pur di proteggerlo, si fa arruolare con lui. Arrivati al fronte in Europa, Bakary cerca di trovare la solidarietà dei commilitoni per evitare i pericoli peggiori, mentre suo figlio subisce angherie gratuite proprio dai suoi stessi compagni. In seguito, però, dopo i primi combattimenti, Thierno viene promosso sul campo da un tenente bianco che lo sprona a farsi onore per la patria, anche se non è davvero la sua.
Nelle prime sequenze del film, padre e figlio vivono nel villaggio una condizione ideale che vediamo drammaticamente stravolta quando vestono le grigie divise tutte uguali insieme agli altri militari nel fango delle trincee. Sembra che sia proprio l’illogica barbarie della guerra a incrinare il loro legame di sangue. Già durante l’addestramento padre e figlio è come se si allontanassero perché il primo cerca di comunicare coi compagni attraverso la comune lingua “fula” (una lingua africana parlata in circa 20 paesi dell’Africa occidentale e centrale), mentre il figlio utilizza, con i superiori, i rudimenti di francese che ha imparato. Il padre Bakary è disposto a tutto pur di preservare la vita del figlio e quando non c’è altro da fare che buttarsi nella mischia, invita Thierno a raccogliersi in preghiera e a invocare la protezione di Dio. Anche di fronte alla morte di uno dei primi compagni, per Bakary vale la pena rischiare la vita pur di recuperare e onorare il corpo di quell’amico, ucciso senza un perché, in una terra per lui straniera. A fronte degli ordini degli ufficiali che provocano carneficine per la conquista di pochi metri di terreno, la saggezza paterna di Bakary conserva i valori delle sue origini e del suo essere uomo prima che soldato. Presto, invece, paradossalmente, il più indifeso ed inerme Thierno è attratto dalla sirena dell’orgoglio militare e gli sembra che cucirsi pochi galloni sulla divisa possa dare un senso all’orrore in cui è stato sbalzato. È disposto anche a dare ordini al subalterno che è divenuto suo padre, capovolgendo il rapporto che hanno avuto fino a quel momento. Se per Bakary l’unico obiettivo è riuscire a tornare in Africa da sua moglie e dalla sua famiglia, Thierno è attratto dall’ardore malato di un giovane tenente bianco che proietta su di lui la frustrazione di avere un padre generale che non riconosce il suo valore.
È ammirevole l’operazione che, dopo una lunga gestazione, Omar Sy, in veste di produttore, è riuscito a portare a termine con la regia di Mathieu Vadepied, conosciuto come direttore della fotografia del fortunato Quasi amici (2011). Con questo film coraggioso, infatti, la star di origine senegalese firma un tributo che ancora mancava a tutte le vittime africane che la madrepatria ha sacrificato, senza alcuno scrupolo, non solo durante la Prima Guerra Mondiale. La voce fuori campo di Bakary, che gli autori immaginano provenire dalla fiamma del monumento al milite ignoto sotto l’Arco di Trionfo a Parigi, è un monito senza riserve contro l’assurdità di ogni guerra. Le sequenze con la macchina da presa addossata ai volti dei soldati, sul campo di battaglia, pieni di terrore o di rabbia, incarnano nella loro crudezza la lezione di pace che la storia dovrebbe sempre impartire. In un periodo di sfrenato neocolonialismo che, proprio in Africa, vede anche da parte francese una rapacità ingiustificabile, questa storia di un padre e figlio, costretti, loro malgrado, ad essere degli spietati “fucilieri” (come recita il titolo originale del film), sprona la coscienza degli spettatori a rifuggire ogni forma di violenza che intacca i fondamenti della nostra comune umanità.
Giovanni M. Capetta
Tag: 4 stelle, Drammatico, Film Francesi, Prima Guerra Mondiale