Agli inizi del XIII secolo, San Francesco (Elio Germano) e i suoi compagni trascorrono le giornate aiutando i bisognosi e predicando il Vangelo. Elia (Jérémie Renier) cerca di persuaderlo a mitigare la rigidezza della loro Regola perché venga approvata dal Papa. Ma Francesco non è disposto a scendere a compromessi…
Dagli affreschi di Giotto alla Commedia dantesca, passando per la leggendaria tradizione dei Fioretti, il mito francescano è tutto un intrecciarsi di rimandi culturali, ben radicati nell’immaginario cattolico e, a partire dal secolo scorso, generosamente accolti nel mondo del cinema. Da questa abbondante stratificazione espressiva sembra prendere le distanze la pellicola di Fely e Louvet (significativamente intitolata, in lingua originale, L’Ami), che salta a piè pari gli aneddoti arcinoti per concentrarsi sul rapporto tra Francesco ed Elia, suo confratello e vero protagonista del film.
L’intreccio scatta dal rifiuto della prima Regola francescana, che parla di povertà assoluta, uguaglianza e amore verso il prossimo nel più puro spirito evangelico, ma proprio per questo preoccupa il Papa (“Vuoi creare un Ordine o incoraggiare alla disobbedienza?”), spingendolo a ordinarne la riscrittura. Un compito di cui si sobbarca Elia, che prova a conciliare le rivoluzionarie aspirazioni del maestro con la concretezza, gretta eppure ineludibile, di una società corrotta e ostile al cambiamento. Questa sofferta redazione – che è anche, di fatto, una relazione – scandisce le tappe della comunità fino alle esequie dell’Assisiate, alternando fatti storici (la vicinanza delle Clarisse, il rigore di frate Aimone, il soggiorno di Elia presso il cardinale Ugolino d’Ostia, le peregrinazioni e la malattia di Francesco) e d’invenzione (l’adozione del trovatello Stefano, la morte di frate Domenico, il tentato suicidio di Elia), sotto forma di racconto-testimonianza di Elia al “figlio” Stefano, modello di semplicità per il futuro della confraternita. Il tema centrale ruota attorno alla domanda: può un’utopia divenire realtà?
Se le dinamiche di politica ecclesiastica non sono una novità nel panorama agiografico francescano, spicca la scelta di ribaltare le parti in gioco, mettendo in luce l’arco di trasformazione di Elia, da discepolo a guida, e le sue pene nel proteggere gli ideali di un santo, anziché semplicemente amarli. “Sei come una madre,” lo ammonisce Francesco, per spronarlo a sognare di più, a sorridere di più. Però Elia, vivendo sulla sua pelle i limiti dell’esistenza terrena (il peso del potere, l’ostracismo dei confratelli, la perdita di Domenico), non ci riesce, e il dolore che ne deriva lo porta a un passo dall’autodistruzione. Se l’empatia dello spettatore tende a sintonizzarsi con questo eroe tragico, umanissimo e per certi versi ricalcato sulla figura di Giuda Iscariota, lo stesso non si può dire di Francesco (che da un punto di vista drammaturgico in questa storia ha funzione di antagonista), che la sceneggiatura relega a un ruolo debole, facendo forse troppo affidamento sulla nostra personale conoscenza del personaggio. Privato dei miracoli, pervaso da una gioia di cui ci viene mostrato molto poco, quello di Fely e Louvet è un Francesco distante, quasi enigmatico, che fatica a coinvolgerci emotivamente – complici anche il ritmo lento e lo stile insistentemente prosaico della narrazione – con il rischio di declassare a chimera il suo sogno di “vivere umili e nudi, senza nulla di proprio”, venando di fanatismo il fervore dei frati minori e smorzando d’intensità lo stesso tormento di Elia.
Esplorazione sul dubbio, più che sulla fede, Il sogno di Francesco è un’opera formalmente studiata (suggestive, nella loro pittoricità, soprattutto le sequenze paesaggistiche), che riflette sulla parabola francescana da una prospettiva originale, ma lascia l’amaro in bocca nel suo indugiare sulle distanze tra teoria e pratica del messaggio cristiano.
Maria Chiara Oltolini
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