Roma, una notte quattro persone con quattro storie diverse si suicidano. Al momento del loro atto tragico, però, un uomo senza nome viene a prenderli con sé e fa con loro un patto segreto. Chiusi per una settimana dentro uno stato di limbo, le quattro persone saranno invitate a guardare i loro drammi, i loro desideri, i loro segreti, interrogandosi se esiste ancora un senso al vivere, e se le cose potevano andare diversamente.
Paolo Genovese si riconferma come il maestro italiano di due sillabe: “E se… ?”. Dopo Perfetti Sconosciuti e The Place (tratto però da un’idea non sua), Genovese si cimenta ancora in un racconto con una premessa forte, magica, che si offre come occasione di affondi minimali e quotidiani nella vita delle persone comuni.
Tratto dall’omonimo romanzo scritto di suo pugno, Il primo giorno della mia vita abbandona l’aria mefistofelica di The Place per sfiorare quella più angelica di film quali La vita è meravigliosa. Tuttavia Toni Servillo non è un angelo; non ha un nome, compie un lavoro di cui non è dichiarata l’autorità, e a ogni legittima domanda dei suoi “pazienti” (così li descriverebbe Berlicche) si limita a sorridere con sufficienza.
E qui cominciano i problemi.
Perché l’altra caratteristica dei film di Genovese è quella di “perdere pressione”. La storia comincia bene, ma poi manca di audacia. “Secondo te posso uccidermi di nuovo?” chiede una delle pazienti. Ma invece di indagare subito quell’intuizione (piuttosto urgente), l’autore si prende il tempo di metà pellicola, tempo che poteva essere speso a dire di più.
Genovese insiste in un gioco di scatole vuote, di domande lasciate in sospeso e misteri che cercano di ingrossare il film come il pane che si riempie d’acqua. Ma i colpi di scena sono relativamente pochi, e le domande “risolte” spesso deludenti. Sopra a tutte, questo misterioso “patto segreto” che i pazienti hanno fatto con Servillo prima che il film cominciasse, e che invece di incuriosire il pubblico lo snerva.
Quali sono le regole della partita? Qual è la vera posta in gioco? Si tratta di purgatorio, siamo in un mondo parallelo? Ma soprattutto: perché Toni Servillo ci tiene tanto a persuaderli?
Forse è volontà dell’autore restare misterioso per essere poetico. Perché dare un nome e una forma alle cose, rovinando così l’aura di mistero che le circonda? Davvero abbiamo la pretesa di definire l’indefinibile? Il senso del vivere, del morire?
Eppure questo gioco di irrisolti non viene senza prezzo. Nel momento in cui la conoscenza della realtà va in pezzi (per i personaggi come per il pubblico in sala), allora va in cocci anche l’etica. Se non sappiamo cosa è vero, allora come capiamo cosa è bello e giusto? Perché vivere, se vivere non è attraente e nemmeno sappiamo cosa significhi?
E quando osa rispondere alle domande, il film traballa ancora di più. “Dov’è mia figlia? – chiede una madre che dieci anni prima l’ha perduta ingiustamente – Ho accettato di rimanere solo per l’ipotesi che lei sia ancora da qualche parte”. E la risposta di Servillo è che i defunti a noi cari vivono ancora, ma nella nostra memoria. Per fortuna che la madre risponde: “a me non basta!”.
È soprattutto il finale a lasciare perplessi. Com’era prevedibile, non tutti i pazienti si convertono. Ma l’ultima rivelazione vanifica molto, forse troppo. Chi si suicida si libera davvero del suo dolore? Abbiamo una responsabilità verso il mondo che resta? Le nostre scelte hanno un prezzo?
Un film che senza dubbio suscita tante domande e permette di discutere. Le risposte, però, bisognerà cercarle altrove.
Alberto Bordin
Tag: 3 stelle, Drammatico, Film Italiani