211 dopo Cristo. L’ultima città libera della Numidia subisce l’attacco della flotta degli imperatori Geta e Caracalla, bulimici di conquiste. A capo dei nordafricani c’è Annone, un prode guerriero di origini romane. Nulla può nello scontro, in cui perde anche l’amatissima moglie, al suo fianco nella battaglia. Prigioniero, deportato, più avvelenato che mai nei confronti di Roma, il giovane finisce nelle mani del trafficante d’uomini Macrino, che ne farà un gladiatore. Era destino… Perché Annone altri non è se non il figlio segreto di Massimo Decimo Meridio, il gladiatore per antonomasia grazie al precedente film di Scott. Lì lo avevamo conosciuto come Lucio, il ragazzino erede al trono, il nipote del grande Marco Aurelio, il figlio di quella Lucilla che parteggiava, appunto, per Massimo. Cresciuto, gettato nell’arena, Annone avrà ora occasione di ritrovare sua madre e rimproverarle di averlo abbandonato. Scoprirà che ci sono personaggi più distruttivi dei perversi fratelli regnanti. E che la salvezza dell’Urbe, di ciò che in termini di civiltà questa rappresenta, dipende da lui.
“C’era un sogno che era Roma…” C’era un gran film, che era Il gladiatore… Giusto parlarne al passato, perché il sequel non è all’altezza. A venticinque anni dall’originale, la prosecuzione, fatti salvi i lauti incassi, merita solo una sufficienza. Se si cercano omaggi numerosi alla fortunata pellicola d’apertura della saga, se ci si accontenta di una trama che, nonostante le pecche, sta in piedi quel tanto che basta per reggere qualche colpo di scena, se si è in vena di abbandonarsi alla grandeur visiva di improbabili naumachie, tutto bene. Questo secondo film, però, di più non dà. Nonostante il suo messaggio morale sia condivisibile: il potere non dev’essere dei cinici, ma di coloro che credono in un senso alto di cittadinanza.
Il protagonista, per la prima metà abbondante della storia, è un maciste torvo e triste, un picchiatore immalinconito. Tanto che, quando poi cita Virgilio – anche se, sì, lo fa perché aveva sentito i versi dal nonno – la sorpresa arriva insieme con qualche dubbio che le battute non siano coerenti con il personaggio. E poi, perché all’inizio Annone ce l’ha tanto con la romanità, se i classici lo avevano formato (nei discorsi alle truppe si spinge ad usare il greco Epicuro)? Roma è in declino? Perché non prendersela solo con i cattivi di turno che ne sono i responsabili (Geta e Caracalla) come Massimo faceva con Commodo?
Già, Massimo… Russell Crowe aveva uno spettro espressivo e una leadership che a Paul Mescal difettano. E la sceneggiatura non lo aiuta. Il cambiamento Annone avviene troppo “a chiamata”. Arriva perché ci doveva essere ai fini del prosieguo della trama, piuttosto subitaneo. Si può obiettare: conta a innescarlo la testimonianza paterna. Bene. E l’amore materno. Un po’ meno… I confronti tra madre e figlio, infatti, non commuovono. In queste scene, il copione è privo di invenzioni particolari. Mescal più di tanto non riesce a trasmettere. L’impegno messoci da Connie Nielsen si sente troppo e fa notare che quelle passioni le avrebbe comunque rese meglio un’attrice meno nordica. Per dire, una novella Irene Papas.
D’altra parte, il casting segna dei punti a favore del sequel. Volti e interpretazioni perfette per i due odiosi imperatori (Quinn e Hechinger), e per il mellifluo Trace (McInnerny). Ma il personaggio di Acacio, abbastanza simile a Massimo-Gladiatore I, mette fuori gioco Pedro Pascal, perché neanche lui è Crowe. Resta Denzel Washington. Che si carica sulle spalle una bella parte dello show, al limite del gigioneggio.
Confessiamo. Eravamo ben disposti e abbiamo provato a dar credito artistico all’opera. Ci siamo anche sforzati di ritenere plausibile l’escamotage del figlio segreto di Massimo (possibile che non sospettasse nulla? Se, invece, sapeva, il suo affetto per la famiglia avrebbe dovuto essere scritto con altre sfumature). Ma abbiamo gettato la spugna quando il gladiatore Annone, all’esordio, se la vede con quelle che sembrano delle scimmie aliene (sono dei babbuini con l’alopecia, ingigantiti con gli effetti digitali) che lo costringono a liberare l’animale che è in lui. Too much. Quando, poi, nel Colosseo inondato ci sono gli squali (la prima idea di Scott, meno azzardata, erano state le anguille) avevamo ormai smesso di badare allo stile, visto che neanche gli autori, in definitiva, se ne erano preoccupati molto. Come confermerà, oltre, l’esibizione di parti di corpo mozzate, facili esche per il ribrezzo degli spettatori. E, oltre ancora, il troppo plateale payoff di una freccia ferale.
Paolo Braga
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