Kenya. Inglesi e americani devono catturare alcuni pericolosi terroristi grazie al supporto di un drone, ma la missione cambia in corsa e implica invece il lancio di alcuni missili, aprendo così un difficile dibattito sulle possibili vittime collaterali. Prima il pilota del drone (che opera da un container nel Nevada) e poi altri soggetti coinvolti cominciano a mettere in dubbio la legittimità di quell’omicidio mirato, che rischia di lasciare sul campo troppe vittime.
Dopo Good Kill di Andrew Niccol e l’intera quinta stagione di Homeland, ecco un’altra pellicola dedicata ai dilemmi morali generati, con grande evidenza e notevole potenzialità drammaturgica, dall’uso dei droni in operazioni di guerra al terrorismo.
Se Good Kill analizzava l’effetto logorante di questa “guerra a distanza”, l’aspetto interessante del film di Gavin Hood (che già in Rendition – Detenzione illegale si era soffermato con intelligenza sulle problematiche etiche legate alla guerra al terrorismo) è che la sua intera durata è dedicata a un’unica missione, all’interno della quale si confrontano i diversi punti di vista di politici, gerarchie militari e “semplici” piloti/operatori, ognuno interrogato dalla situazione e con una decisione personale da prendere.
In questa situazione apparentemente “asettica”, dove i computer calcolano le coordinate di tiro e anche le percentuali di mortalità prevista per la zona bersaglio, il fattore umano paradossalmente appare ancora più decisivo.
Non serve tirare in ballo avvocati che specifichino regole di ingaggio sempre più complesse, visti i cambiamenti drammatici nel contesto internazionale, e la politica può cercare solo fino a un certo punto di “proteggersi” da eventuali fughe di notizie e immagini (la rete è chiaramente un potente sistema di propaganda sia per i governi sia per i terroristi), perché alla fine ciascuno, nel suo posto nella catena di comando, deve prendere una decisione ed esprimere una posizione.
È interessante che, se chiaramente emergono modi di vedere diversi (più spregiudicati e pragmatici i militari, molto più cauti e in certi casi persino meschini i politici inglesi – mentre gli americani sono come da vulgata decisamente spietati), il modo di raccontare non è affatto manicheo e lo spettatore stesso si trova a interrogarsi sulle implicazioni morali di queste operazioni.
Che nella pratica non sono di fatto diverse dai bombardamenti delle guerre passate (salvo essere, nella maggioranza dei casi, molto più chirurgici) ma che, nel porre il volto delle vittime sotto l’occhio di chi “preme il grilletto” (direttamente o indirettamente), costringe a pensare molto di più, a valutare una politica fatta di fini che giustificano i mezzi, di liste di ricercati da catturare (ma a volte pure da eliminare con fredda determinazione), di violenza praticata a distanza di sicurezza ma non per questo meno atroce.
Un film complesso, che coinvolge anche grazie alle ottime interpretazioni: Helen Mirren nei panni del pragmatico colonnello britannico è una sorpresa, mentre Aron Paul dà spessore al pilota americano che per primo solleva il problema delle vittime collaterali. Anche Alan Rickman (qui purtroppo in una delle sue ultime interpretazioni) conferisce dignità al suo militare di carriera alle prese con la politica, tirando fuori proprio nel finale una profondità commovente. I politici interpretati da Jeremy Northam e Iain Glen, infine, sono efficaci proprio perché gli attori che li interpretano ne trasmettono la meschinità senza trasformarli in macchiette. È anche grazie a loro che la pellicola è capace di tenere con il fiato sospeso fino all’ultimo minuto.
Luisa Cotta Ramosino
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