Nell’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Sandro Veronesi, Premio Strega 2020, le vicende di Marco Carrera scorrono in un puzzle di ricordi non sequenziali dalla sua infanzia alla sua morte in un ipotetico prossimo futuro in cui è lecita l’eutanasia in Italia. Il protagonista supera il suicidio di una sorella postadolescente, mantiene per tutta la vita un amore platonico quanto indissolubile con una donna e, però, ne sposa un’altra da cui si separa dopo aver avuto da lei una figlia. Quest’ultima muore tragicamente dopo averlo reso nonno di una bimba che è per lui motivo di coraggio fino all’inquietante epilogo.
Marco Carrera sembra voler dire laicamente che “tutto chiede salvezza”, con l’espressione dal romanzo di Daniele Mencarelli (da cui la serie Netflix). “Tu se facessi del male moriresti” gli vien detto dalla moglie e in effetti, fin da bambino ha un’innata capacità di amare e, come il colibrì del suo soprannome, resiste alle sofferenze più diverse, donandosi a chi gli si affida – compresi gli anziani genitori – con una paziente dedizione, fermo nel suo volo controvento, lottando con la morte (perfino quella più tragica di una figlia). Marco trasforma la lotta del quotidiano in un’avventura contro il destino perché appunto esplicitamente non crede in una predestinazione (lo denota il rifiuto ostinato che il suo amico sia davvero uno jettatore), ed è, invece, aggrappato, nonostante, tutto, alla bellezza misteriosa della vita. È il fratellino che vorrebbe proteggere la sorella senza poterne impedire il suicidio; ama riamato una donna che non è la moglie e si illude che non tradire sessualmente quest’ultima protegga un matrimonio che invece non può che fallire perché poggiato su presupposti inesistenti. È un padre premuroso che assiste la figlia fin durante il parto in acqua e diviene unico riferimento della sua piccola nipote quando resta orfana. La gimkana fra i dolori che il protagonista affronta è raccontata attraverso lo stile riconoscibile di una regista capace di osservare gli eventi senza accentuazioni sentenzianti.
La critica si è spaccata nel giudizio complessivo sul film, segno, al di là dell’esito estetico, che l’opera merita attenzione. Forse la difficoltà maggiore della trasposizione era rendere corale il racconto, che è fin troppo sbilanciato sulla bravura di Pierfrancesco Favino, mentre la scelta impegnativa di un montaggio con flashback e flash forward così rapidi (come nel romanzo), rischia di pretendere dallo spettatore (non lettore) un’immedesimazione in tempi fin troppo repentini.
Come interpretare il finale del film, fedele al romanzo di successo da cui è tratto? Un uomo che ha speso tutto se stesso per gli altri, dice di voler ricorrere al suicidio assistito per evitare alla nipote il dolore di affiancarlo nell’agonia: sembrerebbe un estremo gesto di generosità, eppure è come se mancasse un supporto più solido per una scelta così drammatica. L’evento traumatico – descritto in modo altrettanto forte e prolungato – suscita commozione e un inevitabile dibattito, ma i volti sofferenti di tutte le persone care a cui Marco ha chiesto di assistere alla sua fine anticipata sembrano dirci che, forse, un uomo come lui, che ha sempre trasformato il dolore in energia per gli altri, che ha stigmatizzato la deriva ubriacante del gioco d’azzardo in cui era caduto dicendo che i soldi vinti al gioco rendono “miserabile” la vita, mentre a lui la sua piace e vuole tenersela così com’è… un uomo così avrebbe potuto “scommettere” proprio sul vivere fino alla fine e trovare in altro modo la salvezza tanto a lungo cercata. Quasi che una sorta di coerenza drammaturgica, prima ancora che il principio morale dell’indisponibilità della nostra esistenza (condivisibile o meno), avrebbe potuto mostrare un’altra possibilità.
Giovanni M. Capetta
Tag: adattamento da romanzo, Drammatico, Film Italiani