SCEGLIERE UN FILM

Happy End


TITOLO ORIGINALE: Happy End
REGISTA: Michael Haneke
SCENEGGIATORE: Michael Haneke
PAESE: Francia, Austria, Germania
ANNO: 2017
DURATA: 107'
ATTORI: Isabelle Huppert, Jean-Louis Trintignant, Mathieu Kassovits, Toby Jones
SCENE SENSIBILI: contenuti sessuali espliciti.
1 vote, average: 3,00 out of 51 vote, average: 3,00 out of 51 vote, average: 3,00 out of 51 vote, average: 3,00 out of 51 vote, average: 3,00 out of 5

Alcuni tragici eventi sconvolgono l’apparente serenità dei Laurent, ricchissima famiglia di Calais. Mentre Georges (Trintignant), capo famiglia anziano ed infermo, conta i giorni che lo separano dalla morte, la primogenita Anne (Isabelle Huppert) deve far fronte alle conseguenze di un devastante crollo in uno dei cantieri della ditta di famiglia, che dirige insieme al figlio, il tormentato Pierre. Nel frattempo il fratello di Anne, Thomas (Kassovitz), già al secondo matrimonio, coltiva una torbida relazione con una donna misteriosa. La doppia vita dell’uomo rischia di essere smascherata quando alla sua porta si presenta la figlia tredicenne, Eve, avuta dalla prima moglie che ha appena tentato il suicidio.

Storie intrecciate e drammi umani

Dopo il successo di Amour, Palma d’oro e Oscar nel 2013, Haneke riprende il filo del discorso con un film che sembra idealmente un sequel del precedente. Il contesto è diverso – quello era ambientato a Parigi, totalmente in interni, questo a Calais, dove la superficialità dei ricchi protagonisti fa da stridente contraltare al dramma reale di migliaia di immigrati clandestini – ma la storia presenta elementi ricorrenti che ammiccano allo spettatore. Uno su tutti, il duo Trintignant-Huppert, anche qui padre e figlia (l’anziano protagonista ha anche lo stesso nome, Georges), che con le loro linee narrative travalicano i confini dei film, unendo le due storie – come si intuisce nel momento in cui il capofamiglia confessa alla turbolenta nipote l’omicidio della moglie, andato in scena in Amour.

Una doppia vita che porta all’autodistruzione

Ma non è solo dal film premio Oscar che Haneke attinge per storie, tematiche e scelte registiche. Happy End infatti si innesta nel solco tracciato con le opere precedenti, senza per questo rinunciare ad una sua originalità, soprattutto per quanto riguarda la grottesca ironia che scaturisce dal contrasto surreale tra la compostezza esteriore dei personaggi e il dramma che si annida in ogni piega delle loro esistenze.
Come in molte altre storie raccontate da Haneke, anche qui infatti al centro ci sono la morte e la sofferenza, che è sempre nascosta dietro ad una scorza di buone maniere e di apparenze da preservare per il quieto vivere o semplicemente per un orgoglio ottuso e spietato. Apparenze che celano spesso una doppia vita che però, con grande onestà intellettuale, viene mostrata come una condizione esistenziale provvisoria, destinata prima o poi ad implodere, portando all’autodistruzione.

Il dolore e la morte vissuti attraverso il distacco tecnologico

Anche qui poi, il regista preferisce raccontare gli stati d’animo dei personaggi di fronte alle avversità, piuttosto che gli eventi, praticamente mai in scena (nemmeno quelli più tragici) se non con la mediazione del “digitale”. I supporti tecnologici di cui Haneke si serve per raccontare e rivelare, rappresentano una sorta di muro invisibile, oltre che tra diverse generazioni (ne è l’emblema il rapporto tra nonno e nipote, i due personaggi più lucidi e distruttivi della famiglia) anche tra la realtà vissuta e quella percepita, di cui siamo spettatori più o meno volontari (ritorna quindi il voyeurismo già raccontato in Niente da nascondere e ne Il nastro bianco). Accade così che gli unici riferimenti al tradimento di Thomas – che tanto ricordano la perversione sessuale de La pianista – vengono “consumati” su una chat, il crollo delle fondamenta del centro commerciale attraverso una telecamera di sorveglianza, il tentativo di suicidio della madre di Eve immortalato con un cellulare. La morte quindi – come dicevamo grande protagonista della pellicola – è nascosta o filtrata e il dolore raccontato spesso da lontano, quasi con pudore e un distacco anche e soprattutto fisico, reso alla perfezione dall’uso di inquadrature larghe che per paradosso non riducono il pathos, anzi, lo cristallizzano e lo amplificano.

Gabriele Cheli

Tag: , ,