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Gli Stati Uniti contro Billie Holiday


TITOLO ORIGINALE: The United States vs. Billie Holiday
REGISTA: Lee Daniels
SCENEGGIATORE: Suzan-Lori Parks
PAESE: USA
ANNO: 20221
DURATA: 126'
ATTORI: Andra Day, Trevante Rhodes e Garrett Hedlund
SCENE SENSIBILI: Due scene a esplicito contenuto sessuale e una scena di nudo; assunzione di stupefacenti in vena e linguaggio spesso volgare
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Nel 1939 in un famoso locale di New York la giovane cantante di colore Billie Holiday canta “Strange Fruit” che denuncia i tremendi linciaggi dei neri degli stati del Sud, bruciati e appesi agli alberi come frutti. È una denuncia scandalosa che il Governo deve assolutamente tacitare. Per oscurare la cantante, che nel frattempo riscuote sempre più successo, bisogna puntare sulla sua dipendenza dall’eroina: un reato su cui si scaglia con ogni mezzo (non sempre lecito) il dirigente della narcotici Harry J. Anslinger, che si serve dell’agente di colore Jimmy Fletcher come infiltrato per far cadere in trappola la cantante. Dopo un primo arresto e un anno di carcere, Billie ritrova il successo e non deflette dalla sua causa civile, ma è sempre più dipendente dalla droga e – complice un entourage senza scrupoli – i suoi guai con la legge si aggravano. Jimmy è innamorato di lei e, derogando al suo compito, cerca di proteggerla, ma invano. La cantante muore precocemente nel 1959 di cirrosi, poco dopo essere stata definitivamente denunciata dalla polizia federale.

Bello, coraggioso e drammatico come la sua protagonista

Piacevole grazie alla grande bravura anche canora di Andra Day (candidata all’Oscar come miglior attrice nel 2021 e vincitrice del Golden Globe) per cui godiamo di un musical raffinato in cui i testi dei brani interpretati si intessono mirabilmente con la trama, anche per merito di un’esperta sceneggiatrice. Coraggiosa la denuncia senza mezzi termini della censura governativa – violenta e illegale – come spesso il cinema statunitense sa essere nei confronti della propria storia anche recente. Drammatico perché la vita della protagonista è davvero una lotta senza quartiere contro due nemici troppo più forti di lei, la droga e lo Stato, e dove la stessa linea sentimentale si tinge di tonalità struggenti e quasi prive di speranza. Facile desumere, quindi, che diversi tipi di spettatori possono immedesimarsi: i cultori del jazz, gli amanti del genere poliziesco americano in cui c’è sempre qualcuno che manovra da più in alto le pedine e infine chi si lascia affascinare da un amore impossibile fra due amanti di colore che, però, appartengono a due mondi che li mettono uno contro l’altro.

La capacità di unire il fascino dello spettacolo con la desolazione dietro le quinte

Chi guarda è come se venisse continuamente costretto a passare dall’ammirazione per la bravura e il fascino che Billie emana sul palco, alla compassione per la sua terribile debolezza, fino a qualche minuto prima nel suo camerino. Merito della regia e della grande interprete se possiamo assaporare una verità che in fondo è di ogni vita umana: siamo fatti di genio e di polvere, capaci di arte sublime e di autodistruzione. Chiaro che la vicenda della Holiday non sia comune a tutti, ma la bravura attoriale dell’interprete ce la avvicina anche nei suoi eccessi: un grande afflato di giustizia contro il razzismo imperante, in un animo e in un corpo devastati da violenze e turbamenti fin dalla più tenera età. Non mancano scene forti con l’assunzione in vena di eroina o i ricordi di Billie, bambina nata in un bordello e poi spettatrice di un atroce linciaggio. Una battaglia impari quella fra Billie e gli Stati Uniti, come già il titolo evidenzia, e forse questo toglie un poco di suspence, compensata, però, dall’introspezione dei personaggi, nei loro così tragici conflitti interiori. Billie Holiday è in un letto morente, ma afferma con orgoglio che la sua canzone simbolo sarà cantata anche dai nipoti di coloro che ora la perseguono e Jimmy, l’unico uomo che l’ha amata davvero, ha il coraggio di dire in faccia al suo superiore che in fondo lui odia quella donna perché non accetta che, nonostante sia una maschera tragica, vittima perfino di se stessa, Billie ha saputo diventare una star e una star di colore. Proprio così: una stella a cui – come suggeriscono i cartelli di coda – gli Usa possono ancora tributare la giusta memoria.

Giovanni M. Capetta

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