Il film segue la vita di quattro amici, tre uomini e una donna, a partire dagli anni ’80 fino ai giorni nostri, tra innamoramenti e litigi che metteranno alla prova il loro legame ma senza mai riuscire a spezzarlo completamente.
Gabriele Muccino ha uno stile molto riconoscibile, rimasto quasi immutato nel corso di un ventennio, e il suo pubblico in parte sa già cosa aspettarsi quando entra in sala: storie calde, intime e estreme al tempo stesso, con una recitazione spesso sopra le righe ma sostenuta da attori che ne sanno reggere il peso. E ne Gli anni più belli c’è tanto Muccino, non solo nella regia (di cui è comunque maestro), ma già nella sceneggiatura, che si ispira a un capolavoro come C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, ma ne rimaneggia profondamente il contenuto.
Pur tenendo lo stesso luogo (una Roma meravigliosa, prima ancora cinematografica che reale), cambiano gli anni e con essi le tematiche: se C’eravamo tanto amati inizia con la guerra e attraversa gli anni della ricostruzione e del boom economico, con il loro carico di ideologia politica e di appartenenza di classe, Gli anni più belli ripercorre un quarantennio in cui apparentemente la “Storia” è molto meno incisiva e a prevalere sono quindi le storie individuali, che si giocano in prevalenza sul piano sentimentale.
Le vite di Giulio, Paolo e Riccardo, infatti, sono investite dalla vulcanica presenza di Gemma, unico membro femminile del gruppo. Un’adolescenza difficile l’ha resa sentimentalmente instabile e insicura, ma anche provocante e affascinante, ed è nella più totale buona fede che getta nello scompiglio le vite dei suoi amici. Nonostante la bella interpretazione prima dell’esordiente Alma Noce e poi della Ramazzotti, è un personaggio che risulta sempre un po’ macchiettistico e con cui si fa fatica ad entrare in sintonia.
Un po’ più definite le personalità dei tre ragazzi, attraverso i quali Muccino sostiene di aver raccontato diverse parti della sua personalità e dei propri timori: Riccardo (Claudio Santamaria), che fatica a trovare un proprio posto nel mondo e incarna la paura del fallimento, Paolo (Kim Rossi Stuart), che paga con la precarietà e la solitudine il prezzo del proprio idealismo e Giulio (Pierfrancesco Favino), che sceglie la professione di avvocato sognando il riscatto sociale, ma si trova a scendere a compromessi con il potere. L’interpretazione di un cast di così alto livello e la delicatezza autobiografica di Muccino riescono a raccontare con calore le debolezze di questi personaggi, anche se il quadro che ne emerge è pur sempre quello del fallimento di una generazione. Per ognuno dei protagonisti, infatti, la vita si è rivelata essere il tradimento di un sogno di gioventù.
Un aspetto non secondario di questo fallimento è la tesi mucciniana sull’incapacità di gestire i sentimenti (innamoramenti, tradimenti, abbandoni) che la fanno da padroni e non tengono conto di legami coniugali, lealtà amicali, fedeltà. Non sorprende che la parabola di Riccardo manifesti un pesante pessimismo riguardo alla possibilità di una relativa felicità coniugale; pessimismo solo parzialmente ripagato da un finale irenico, che sembra una versione italianizzata e romanizzata della irreale amicizia celebrata dalla serie Friends.
Certo, alla fine di una lunga serie di peripezie (forse troppe, come se la storia dovesse procedere sempre per accumulo) arriva il tanto atteso finale dolceamaro, capace di rimettere al centro il valore dell’amicizia e dare un’apertura verso il futuro. Ma in fondo, nemmeno questo riesce a compensare per la perdita degli anni più belli.
Scegliere un film 2020
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