Savannah, Georgia. James Sythe è imputato per l’omicidio della fidanzata Kendall. All’accusa, Faith Killebrew, aspirante procuratrice distrettuale, ansiosa di intascare una facile vittoria. Tra i membri della giuria, Justin Kemp, la cui moglie sta per concludere una gravidanza a rischio. Alla prima udienza, lo choc: Justin si rende conto di aver ucciso lui Kendall, investendola accidentalmente nella notte. Contro ogni apparenza, Sythe è innocente: condannarlo non è ammissibile. Ma come convincere gli altri giurati, per di più senza compromettersi? Come evitare il mors tua, vita mea? E come riuscirci in fretta, per non lasciar sola la vulnerabile moglie?
Questo il probabile destino di Giurato n°2, il cui chiaro obiettivo è lanciare un guanto di sfida. La prima parte è la metodica esposizione della procedura di composizione di una giuria, seguita dalle udienze. La seconda, dedicata perlopiù al dibattito tra i giurati, mette in luce i vizi che pregiudicano l’equità del processo. Tanto infatti è l’orgoglio con cui la civiltà del diritto celebra sé stessa nel solenne rito giudiziario, quanto è evidente che non esiste sistema, per quanto ben congegnato, che possa risparmiarsi di scommettere sulla responsabilità del singolo.
Al netto dei tornaconti personali, come quello di Faith Killebrew, l’insidia peggiore è la speranza dei giurati in un verdetto spedito, che li faccia rincasare al più presto. E quando non è il disinteresse, a fare da criterio di valutazione sono il reattivo disgusto per la brutalità del crimine, le poco rassicuranti sembianze di James Sythe o gli spiacevoli richiami tra il caso in esame e la propria storia personale. In sintesi, ogni forma di pregiudizio, nel senso proprio del termine: un giudizio preventivo, indisponibile a percorrere per intero il tragitto della conoscenza, perché preoccupato di difendere una certa disposizione d’animo iniziale.
Un’attitudine che non conosce partito, sesso o razza (chiunque può esserne bersaglio e perpetratore), incancrenita dallo stratificarsi di più fattori, che Justin Kemp s’incarica di perforare, solo contro gli altri undici giurati. In questo, ogni riferimento al celebre La parola ai giurati (1957) è del tutto volontario. Ma nel caso di Kemp, l’ardita impresa è adombrata da un’inconfessata ambivalenza: garantire giustizia a Sythe, lasciando però il delitto impunito. Invocare giustizia per un altro, ma sottrarsi a quella su di sé.
Il tormento di Kemp è motivato dalla premura per una famiglia a rischio. Ma, come lui stesso sostiene in uno dei molti passaggi meritevoli di attenzione, come si ama la propria famiglia, bisogna saper amare il mondo intero. Si tratta della sua implicita obiezione ad una delle più resistenti radici del preconcetto: quella di chi immagina sé stesso nei panni dei genitori della vittima, di chi pensa alla giovane uccisa come alla propria figlia, il rispetto per la quale viene confuso con l’imperativo alla condanna di Sythe. La punizione di un colpevole, anziché del colpevole. Ma Justin osa immedesimarsi anche coi genitori dell’imputato: al loro posto, chi non vorrebbe giustizia anche per lui? Non andrebbero trattati entrambi, vittima e sospettato, come figli propri?
Ma, di nuovo, si tratta dello stesso Kemp che, mentre guarda Sythe come un figlio, vorrebbe sfuggire alle sbarre proprio in nome di moglie e figlio. Il più giusto degli uomini di Savannah rischia di essere al contempo tra i peggiori. Non per bieco egoismo, ma per la macerante alternativa tra due sacri beni.
Meno controversa, ma non meno dilemmatica, è la coprotagonista Killebrew, il cui percorso insiste a sua volta sugli ostacoli ad una giustizia integrale. Quanto più sofferte le scelte dei personaggi, tanto più imprevedibili le loro mosse: la trama del film, pur con alcune imperfezioni, riesce a far sobbalzare. Fino all’ultimo – che non sveliamo – potente rimbombo delle sue numerose (salutari) provocazioni. Al pubblico il compito di far da giuria, di far risuonare in sé lo struggimento (pur composto e discreto) visto in sala, di osare prendere posizione. Ma senza cadere nella sbrigatività del pregiudizio.
Incuriosisce, a tal proposito, un indizio sotterraneo: la scelta del nome «Faith» («fede») per l’avvocato Killebrew e il soffermarsi di lei sulla ricorrente iscrizione «In God we trust» («Abbiamo fiducia in Dio»). Forse che, in fin dei conti, la vera giustizia non è in mano al tribunale umano?
Marco Maderna
Tag: 5 Stelle, Drammatico, Thriller