Il 3 settembre 1939, due giorni dopo l’invasione tedesca della Polonia, il professore anglicano C.S. Lewis si reca a Londra da Oxford per incontrare Sigmund Freud, costretto a fuggire dall’Austria l’anno prima in seguito all’invasione nazista. Nell’intenso pomeriggio trascorso insieme i due si confrontano soprattutto sulla questione della fede che li vede su posizioni antitetiche. L’ateo Freud interroga Lewis sulla sua infanzia, la sua conversione al cristianesimo grazie anche all’amico J. R. R. Tolkien, nel circolo letterario degli Inklings e poi i traumi della Prima Guerra Mondiale e la relazione con la madre di un suo commilitone rimasto ucciso. Ma anche Lewis interpella il famoso psicanalista sul suo passato e gli chiede conto delle sue ragioni. Freud è malato terminale per un tumore alla bocca (di lì a tre settimane morirà con eutanasia), dipende dalla morfina e dall’assistenza di sua figlia Anna che è morbosamente attaccata a lui, ma vuole anche mantenere una relazione sentimentale con la collega Dorothy Burlingham che il padre disapprova.
L’adattamento cinematografico dell’omonimo dramma di Mark St. Germain immagina un incontro-scontro – probabilmente mai avvenuto – fra due personaggi dal talento non comune. I due (che si conoscono solo di fama) hanno desiderato questa disputa che vede al centro il tema fondamentale dell’esistenza di Dio. Freud considera la fede un fragile rifugio per bambini ingenui che rinunciano alla ragione e alla scienza, impauriti dal dolore di cui la vita è pervasa. L’esistenza del male è la prova stessa che Dio o non esiste o è impotente. Radicale è ovviamente anche la critica a tutta la morale sessuale cristiana. Lewis con pazienza ribatte al sarcasmo dissacrante dello psicanalista e cerca di fargli riconoscere il valore della rivelazione biblica, la storicità dei Vangeli e di Gesù, infine il suo essere vero uomo e vero Dio. Attraverso icastici flashback relativi ai traumi dell’infanzia per entrambi e all’orrore della guerra in trincea per Lewis, i due interlocutori sono giunti a posizioni opposte. Freud si è convinto presto che la legge dell’amore proposta dal Cristianesimo è utopia se non nevrosi; Lewis, nel buio dello smarrimento, ha trovato la mano di un Padre che lo ha sorretto.
Quando fra i due antagonisti sembra non vi sia più niente da dire, la ragione lascia spazio alla compassione. Freud si immedesima nelle atrocità che Lewis ha vissuto al fronte, mentre quest’ultimo giustifica l’anziano scienziato che ammette le sue responsabilità nel legame patologico che la figlia Anna ha instaurato con lui; essere stato il suo stesso analista e quello della sua attuale compagna non ha certo contribuito al sano distacco che sarebbe stato opportuno. Di fronte a questa ammissione di debolezza, l’apologeta cristiano non infierisce sullo psicanalista e anzi lo soccorre in un momento di acuto dolore in assenza del medicinale anestetico. Quando i due si separano, non hanno cambiato i loro convincimenti, ma hanno riconosciuto nell’altro l’onesto desiderio di avvicinarsi alla verità. Così lo stesso spettatore, quale che sia il suo orientamento esistenziale, non resta deluso perché merito della scrittura è quello di riuscire a mantenere una sorta di imparzialità fra le Weltanschauung che i due protagonisti incarnano. Anche al regista va riconosciuto di aver saputo gestire con efficacia un argomento di per sé drammaturgicamente ostico, utilizzando i flashback per interrompere la staticità del contradditorio in un unico interno. Tutto ciò non sarebbe, però, sufficiente, se a sostenere la narrazione non vi fossero le ottime interpretazioni di Hopkins e Goode. L’anziano premio Oscar e il suo più giovane connazionale rendono onore al blasone della recitazione anglosassone così da rendere appassionanti e tangibili anche i concetti più astratti di cui sono estensori i loro personaggi.
Giovanni M. Capetta
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