Da qualche parte, in qualche tempo. Un solitario gatto nero deve salvarsi da una devastante alluvione. Per riuscirci, deve vincere la repulsione per l’acqua e condividere un’imbarcazione alla deriva con un capibara, un lemure, un labrador e un poco rassicurante volatile (un serpentario). Collaborare per la sopravvivenza non sarà semplice.
Diretto dal lettone Gints Zilbalodis, la peculiarità di Flow non è certo la sua trama, ma la scelta controcorrente di non dotare di comportamento umano il proprio cast di soli animali. Il gatto protagonista non ha nome, né lo hanno i suoi compagni di viaggio. Tutti sono privi di parola, usi ad agire e interagire secondo l’istinto della propria specie, al netto di alcune fantasiose eccezioni. Eccezioni forse necessarie alla riuscita dell’impresa di raccontare una storia in assenza dell’unica (a occhio) creatura che una vera e propria storia può vantare di averla: l’essere umano.
Del quale, lungo questo breve e grazioso film semi-muto (privo di dialoghi ma non di sonoro e di linguaggio musicale), non ci sono che le tracce: grandiose rovine architettoniche, sculture disseminate nell’ambiente naturale, testimonianze di una civiltà che fu. E che ora, che sia estinta o migrata altrove, travolta dall’inondazione o da altro, non esiste più.
Che cosa dunque un uditorio di esseri umani, bambini e adulti, può ricavare dall’osservazione di uno sparuto gruppo di fauna selvatica impegnato a collaudare un pericolante ecosistema, in cerca di un nuovo habitat?
Innanzitutto, per quanto accurato (e talora spassoso) nel riprodurre il comportamento animale, Flow non è certo un documentario. È una storia sulla fiducia e sulla collaborazione. Dell’assortito gruppo di naviganti, il pavido micetto è il più riottoso a tuffarsi in acqua, nonché il meno disponibile al lavoro di squadra. Nessuno si salva da solo: questa la prima lezione del film. E non c’è salvezza senza rischio: un’esperienza che il piccolo felino deve imparare a non aggirare.
I meno piccoli potrebbero inoltre notare una somiglianza tra il naviglio di animali sopravvissuti al diluvio e l’arca di Noé. Ma un’arca senza Noé: non per nulla, c’è chi interpreta la grande alluvione come una catastrofe climatica che, non avendo risparmiato gli esseri umani, potrebbe invece preservare altre specie viventi, il cui innato istinto di sopravvivenza sarebbe – amara ironia – più saggio dell’inettitudine umana. Una lettura plausibile, che deve tuttavia fare i conti, tanto quanto il paragone biblico, con indizi che suggeriscono un periodico saliscendi del livello delle acque, allarmante per alcune specie, ma non per altre (consiglio: fermarsi a guardare la sequenza al termine dei titoli di coda). Non manca inoltre una capillare simbologia, che il pubblico adulto può cimentarsi a decodificare. Simbologia diffusa tanto nel paesaggio (i ruderi architettonici sono perlopiù antichi, le opere d’arte sparpagliate nel territorio sono quasi tutte gatti di legno), quanto nei protagonisti (è un caso che il protagonista sia un micio nero?) e negli oggetti.
In effetti, l’immenso, maestoso e silente panorama di Flow cela più di quanto disveli. Parte integrante del suo fascino sono gli arcani che custodisce: l’assenza di coordinate spazio-temporali, le enigmatiche vestigia di un’umanità ignota e altro ancora fanno dell’itinerario del gatto l’immersione (anche letterale) in un grande mistero, in una realtà la cui origine e meta sono sconosciute. Un imponente flusso – questo il significato dell’inglese «flow» –, che ben si adatta ad interpretazioni filosofiche. Del resto, che Flow sia anche una meditazione esistenziale lo testimoniano brevi sequenze sovrannaturali, che tradiscono intenzionalmente l’iniziale proposito di fedeltà zoologica. Tant’è che qualcuno ha voluto azzardare – nella platea di Flow c’è posto anche per i cinefili – un suggestivo paragone con i film di Terrence Malick.
Il che ci porta a quella che, forse, è l’esperienza fondamentale che Flow intende offrire: accomunare adulti e bambini, quale che sia la loro profondità di lettura, in un ritrovato senso creaturale dell’esistenza. Osservare gli altri esseri viventi, come un tentennante gatto che affronta il mondo con i luminosi occhi spalancati, può ben ricordare all’uomo qualcosa della sua condizione. Ad esempio, che è per lui buona cosa affrontare la grande corrente che lo trasporta non da solo, ma in compagnia.
Marco Maderna
Tag: 4 stelle, Animazione, Avventura