All’estrema periferia di Roma, in una fila di villette a schiera, un gruppo di ragazzini e le loro famiglie trascorrono un’estate di quotidiano degrado, tra il lavoro che manca e coppie in cui la violenza serpeggia sotto traccia. Ai ragazzini non resta che difendere ciò che rimane della loro infanzia, travolta dalla mediocrità di adulti indifferenti e frustrati.
Se la prima opera dei fratelli D’Innocenzo, La terra dell’abbastanza, era esplicitamente ispirata a un neorealismo di fondo, Favolacce, premiato come miglior sceneggiatura alla Berlinale, sembrerebbe sin dal titolo prendere una direzione diversa.
Questa volta non si parla di clan mafiosi, né di regolamenti di conti: i ragazzini a cui è affidato il punto di vista non sono calati nella realtà sanguinosa della Paranza dei bambini ma in una languida quotidianità estiva, nelle campagne che circondano Roma.
Eppure, nonostante un’estetica talvolta espressionista e sognante (ma sempre al confine con l’incubo), guardando Favolacce si ha comunque l’impressione di ritrovare una cifra che da Gomorra in poi ha travolto il cinema e la televisione italiani. Certo qui il degrado e la violenza non sono esibiti, non esplodono lasciando tracce di sangue, ma covano nel profondo, come le larve che divorano da dentro le palme del Raccordo Anulare, per citare il documentario Sacro GRA che, mutando genere e toni, ha più di qualche punto in comune con questa pellicola.
L’iperrealismo alla Gomorra viene appena contaminato, bordato dallo sguardo innocente di bambini che vivono le ambiguità della pre-adolescenza in un mondo di adulti (padri, madri e professori, non si salva nessuno) disumanizzati, senza desideri, senza direzione. Se pure nessuno mette loro in mano una pistola, i ragazzini di Favolacce sono abbandonati in un limbo privo di ogni riferimento, lasciati andare alla deriva con il solo compito di adattarsi a una realtà contradditoria, incomprensibile, fatta di carezze e violenza, di tenerezza e follia elargiti senza criterio.
Il punto di vista dei bambini è la chiave di volta di un’estetica toccante che accende la luce e la poesia di una natura degradata, facendo esplodere i sensi e assicurando almeno, nel contesto di una narrazione faticosa, un’intensità viscerale e nostalgica che riporta alle estati dell’infanzia. Ma questo non basta a sostenere una vicenda che si dispiega stancamente, punteggiata dall’inquietante stridore della colonna sonora e da inquadrature sperimentali che ricordano lo sguardo lynchiano sulla provincia americana nella quale sotto l’erba del vicino si nasconde l’orrore.
Se l’estetica accede alla dimensione di favola nera ricercata dagli autori, la narrazione non riesce a fare altrettanto e rimane ancorata a un realismo ormai già visto: nemmeno il faticoso e un po’ compiaciuto escamotage della voce narrante riesce a dare forma e unità e un corpo talvolta così disperso da risultare freddo.
La favolaccia irrompe solo nel finale, nerissimo e disperato eppure così eccedente e intenso da incarnare la ribellione dell’infanzia violata, un sasso lanciato contro la calma apparente di un lago maledetto.
Scegliere un film 2020
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