Julio Cesar (Edoardo Pesci) vive insieme alla madre, di origine colombiana, in una imprecisata località sul litorale laziale, alle porte di Roma. I due condividono la passione per il ballo oltre che la professione: sono infatti spacciatori al servizio di un piccolo boss locale (Gabriel Montesi) che gestisce il traffico di cocaina tra Italia e Sudamerica. La simbiosi tra madre e figlio viene però scardinata dall’arrivo di un giovane corriere della droga, una ragazza (anche lei colombiana) che di nome fa Ines…
Narrare le gesta di personaggi che appartengono ad una delle più deprecabili categorie umane, ovvero quella degli spacciatori, non è in fin dei conti un’operazione così originale, ma farlo dal punto di vista di una strana famiglia, incompleta ed internazionale, che si fonda su un rapporto un po’ morboso tra una madre tossicodipendente e prevaricatrice, ed un figlio succube ed iperprotettivo, in effetti lo è. Farlo poi ambientando la storia in un ideale mondo di provincia, decisamente reale ma al tempo stesso immaginifico e sospeso nel tempo, lo è ancora di più.
Per il suo terzo lungometraggio infatti, dopo Il terzo tempo (sul rugby) ed il documentario autobiografico Saro (in cui racconta in diretta l’incontro con il padre incontrato a venticinque anni per la prima volta) il regista Enrico Maria Artale realizza un altro film fortemente personale che tra le svolte del soggetto firmato insieme ad Edoardo Pesce, nasconde anche elementi autobiografici (a detta dello stesso regista). Non ha particolari attinenze con la realtà invece il sodalizio raccontato tra comunità italiana e colombiana a Fiumicino e paraggi ma ad ogni modo, questo gangster movie alla cacio e pepe ha un suo perché e infatti alla mostra di Venezia ha vinto i premi per la migliore sceneggiatura e la migliore interpretazione femminile nella categoria Orizzonti (riservata alle nuove tendenze e tecnologie del cinema contemporaneo).
A dire il vero, la struttura ha qualche debolezza perché la trama sembra avere due fuochi: da una parte la linea sentimentale che viene promessa nelle prime scene ma poi rimane in sospeso, tra Julio e la misteriosa ed esotica Ines – che all’inizio della storia rischia anche di morire per le conseguenze del carico mortifero di stupefacenti che ha ingerito – dall’altra la storia della relazione un po’ edipica con questa madre ipertrofica, consapevolmente manipolatrice, che però si conclude poco dopo la metà del film per cause di forza maggiore (niente spoiler ma un po’ sì). Tra qui e l’ultimo atto del film, c’è una sorta di impasse, un ristagno della trama che rimane per alcune scene senza un tirante narrativo forte e sembra bloccata, inesplosa, esattamente come il protagonista. La strana sensazione di stasi in cui sprofonda la storia è però con ogni probabilità un effetto cercato perché funzionale al rilancio finale, quel viaggio in Colombia tanto desiderato dal disperato e anche un po’ autolesionista Julio, che finalmente parte alla volta del Sudamerica come corriere sui generis (capirete perché) in cerca della bella Ines e anche delle proprie radici (sua madre è originaria di una fantomatica località che si chiama El Paraiso, da cui anche il titolo del film e il nome della barchetta che Julio tiene ormeggiata nei pressi della foce del Tevere).
Nel complesso comunque il giudizio su regia e sceneggiatura non può che essere positivo, soprattutto per due personaggi principali che hanno una loro verità e una certa tridimensionalità, conferita dal ribaltamento paradossale degli stereotipi: lui, giovane uomo in rampa di lancio, protettivo ma con una sua fragilità; lei, una donna sul viale del tramonto, sicura di sé (pure troppo) ma edonista e totalmente autocentrata.
Alla fine di questo guazzabuglio di vizi, miserie ma anche fortissimi legami affettivi, il film spiega quasi nulla, alcune cose sono seminate e lasciate in sospeso e non si indaga più di tanto sulle cause originarie della situazione esistenziale dei protagonisti. Questa asciuttezza libera per assurdo da ogni pregiudizio e anche il finale, apertissimo, anche se un po’ macabro e, se vogliamo, indigesto, ha risvolti simbolici decisamente evocativi e lascia allo spettatore la libertà di trovare un senso.
Gabriele Cheli
Tag: 3 stelle, Drammatico, Film Italiano, Plauso della critica