Un famoso drammaturgo francese torna a casa dopo tanti anni per rivelare alla sua famiglia che è in fin di vita. Il suo arrivo scatena emozioni contrastanti tra i parenti…
Alla scorsa edizione del Festival di Cannes, il canadese Xavier Dolan ha vinto il Grand Prix della Giuria con l’adattamento di una pièce teatrale del 1990 (Juste la fine du monde, di Jean-Luc Lagarce), ma assai vicina al dramma da camera di inizio Novecento: un genere che inscena vicende familiari dolorose e spesso claustrofobiche, di solito a sfondo borghese, auscultando il vissuto interiore di una cerchia ristretta di personaggi. Queste caratteristiche sono portate alle estreme conseguenze all’interno della pellicola, per concentrarsi sulle dinamiche relazionali di una famiglia sempre in lotta, verbosissima e piena di aneddoti, eppure incapace di parlarsi davvero.
Louis, artista omosessuale come lo stesso Dolan, porta a compimento la sua cronaca di una morte annunciata nel monologo di apertura, prima che l’aeroporto si trasformi in un sobborgo di periferia, e poi nella campagna francese, dove lo aspetta un lauto banchetto. Sembra il ritorno del figliol prodigo, ma la canzone in sottofondo dice tutt’altro (Home is Where It Hurts, “casa è dove ti fa male”), mentre un cartello pubblicitario (“Besoin de parler?”, “Bisogno di parlare?”) anticipa il tema del film. Questa tecnica, attenta al dato visivo e incline a usare la musica come chiave di lettura, è costante nel corso della pellicola e ben si adatta al suo intimismo.
Non ci sono mostri, tra le mura domestiche da cui Louis è scappato: solo una sorella adorante, una nuora insicura, un fratello collerico e una madre accentratrice, i volti ingigantiti dalle inquadrature come da lenti di ingrandimento, a rivelarne i moti dell’animo in tutta la loro mutevolezza. Altrettanto frammentaria appare la sceneggiatura, perennemente in bilico tra rabbia (c’è chi ha paragonato il film a Look Back in Anger di Pinter) e nostalgia, tra liti stizzose e silenzi carichi di sottintesi. Il risultato è uno sguardo in presa diretta sulla realtà, che annulla gli spazi tra cinema e pubblico per colpirlo dritto al cuore, grazie alle performance degli attori e alla finezza della messa in scena.
Quello di Louis è un mondo imperfetto, fatto di smalti che non si asciugano e battute di cattivo gusto, ed è proprio il ritratto di questa imperfezione il lato più riuscito dell’opera, specialmente quando esplode la colonna sonora e il tempo sembra fermarsi in attimi di pura serenità. Ma sono tregue minime, in un contesto che minaccia di schiacciare, con i suoi isterismi a tutto volume, l’esilità della trama. Alla fine, nonostante gli sfoghi e le lacrime, il dialogo resta impossibile e il film si blocca come un meccanismo inceppato, vittima della sua stessa incomunicabilità, creando immagini di struggente bellezza, che però finiscono per mitizzare le nevrosi di una famiglia, anziché osservarle criticamente.
È solo la fine del mondo è una pellicola che, nel bene e nel male, difficilmente lascia indifferenti, confermando il talento precoce di Dolan, virtuoso della macchina da presa, e la sua sensibilità decadente, a metà strada tra poesia maledetta e videoclip. È facile riconoscersi, soprattutto per i più giovani, in questa forma di racconto, abile nel captare i dettagli del quotidiano e travolgente sul piano delle emozioni, ma meno generosa quando si tratta di produrre una riflessione concreta. La staticità dei conflitti, tanti e tutti parossistici, e un certo compiacimento estetico, sommergono lo spettatore con un’ondata di sensazioni tattili, che tuttavia, senza il sostegno di una solida architettura narrativa, rischiano di restare in superficie, arenandosi nelle secche del mélo.
Maria Chiara Oltolini
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