New Jersey. La polizia è sulle tracce di un criminale, autore di un’efferata carneficina, e ad un posto di blocco viene fermato un furgone sospetto. Al suo interno ci sono decine di cani, al volante un uomo vestito da donna: si chiama Douglas e più tardi, in carcere, racconta la sua storia ad una psichiatra. Quando era un bambino, suo padre lo ha tenuto rinchiuso per punizione nel recinto dei cani, destinati ai combattimenti clandestini. Per mesi quegli animali sono stati la sua unica compagnia e adesso, che è libero ed adulto, sono diventati la sua famiglia. Una famiglia che è pronta anche a fargli giustizia…
Il regista francese Luc Besson (Nikita e Leon) torna a raccontare la storia di un outsider, un personaggio decisamente originale che nella caratterizzazione – il trucco pesante e la personalità borderline – e nel percorso esistenziale, ricorda molto il Joker di Batman (soprattutto nell’ultima versione, umanizzata, di Joaquin Phoenix). Anche qui infatti va in scena l’arco di trasformazione di un innocente abbandonato, rifiutato ed in cerca del proprio posto nel mondo, che da vittima sembra diventare – forse, ma niente spoiler – carnefice.
Partendo da una condizione di degrado estremo, deprivato di ogni bene primario (insieme alla libertà, l’affetto famigliare, il diritto all’educazione scolastica, un dignitoso sostentamento per la sopravvivenza) il protagonista affronta un complicato percorso di rinascita che lo porta però a sbattere più volte contro il muro della malvagità e della superficialità umana.
Un vero e proprio riscatto infatti alla fine non c’è, perché il protagonista inizia e finisce da reietto (nonostante la scoperta del talento canoro e il conseguente momento di gloria estemporanea sul palcoscenico) ma è molto bella ed emozionante la progressiva rivelazione – che emerge soprattutto dal confronto con la psichiatra, in carcere, che fa da cornice alla storia – della nobiltà dei sentimenti (l’amore per gli animali, la passione per l’arte) e degli ideali (soprattutto in tema di giustizia sociale) che gli appartengono e che fanno da contraltare alla scabrosa miseria umana in cui si ritrova invischiato per tutta la vita.
Questa abbondanza di valori insiti nel personaggio, molti dei quali raccontati solamente tramite i dialoghi, offre interessanti spunti di riflessione su problematiche anche attuali come il rapporto tra uomo e natura, la distribuzione della ricchezza, la religione. Su tutti però, spicca il tema dell’identità e di come gli affetti possano plasmare la personalità e condizionare le scelte di qualcuno. In sostanza il film pare dirci che noi non siamo quello che facciamo, e nemmeno quello che diciamo o pensiamo, ma siamo qualcuno rispetto agli altri e a come entriamo in relazione con le persone che ci circondano.
L’aspetto invece che può lasciare perplessi è il rapporto del personaggio con il trascendente e la risposta che il film dà rispetto al tema. L’argomento è trattato molto esplicitamente attraverso dialoghi e simboli ricorrenti ma il giudizio finale rimane in una zona d’ambiguità difficile da decifrare.
La storia infatti sembra voler contrapporre ad una concezione negativa, triste e moralista, della religione e della fede – impersonata dal fratello bigotto e dal padre padrone, cattivo e sadico – la spiritualità ferita e sofferente del protagonista che crede in Dio (lo nomina spesso) e sembra desiderare sinceramente una relazione con lui (anche attraverso l’amore per quei cani che lui definisce “angeli”). Il finale però è estremo e getta il velo di un dubbio che, unito all’eccentricità del personaggio, oscura il messaggio di apertura rispetto alla fede, svuotandolo in parte di significato.
Gabriele Cheli
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