Il giovane aspirante veterinario Scott Thorson (Matt Damon) non ci pensa due volte a lasciare la provincia e gli studi quando il celeberrimo pianista e artista di music-hall Liberace (Michael Douglas) gli chiede di andare a vivere con lui. Affascinato dall’uomo e dal suo talento, e sedotto per certi versi anche dalla solitudine e dalla fragilità che vede di poter compensare, il giovane si trasferisce nella lussuosissima casa dell’artista, diventandone il pupillo e condividendone, oltre al letto, anche una vita vuota costellata di eccessi, sprechi e di piaceri fini a se stessi che diventano ossessivi.
La passione brucia l’anima. Dieci anni, dal 1977 al 1986, nella vita del talentuoso pianista italo polacco Władziu Valentino Liberace (1919-1987) e di uno dei suoi pupilli, Scott Thorson. Il film è tratto dal libro scritto da quest’ultimo e dal giornalista Alex Thorleifson, Behind the Candelabra. My Life With Liberace, memorie che ristabiliscono la verità sulla vicenda umana dell’artista (uno dei più popolari e in vista del mondo dello show-business di Los Angeles degli anni tra i Cinquanta e i Settanta) e sulle sue preferenze sessuali. Chi si aspettava da questo film un nuovo manifesto della cultura omosessuale (che così è stato venduto da molti) troverà tutt’altro: la sceneggiatura – scritta da Richard LaGravenese, validissimo autore di script come La leggenda del Re Pescatore, I ponti di Madison County, Freedom Writers – non sposa nessuna ideologia. Fa riflettere, certo, su come fino agli anni Ottanta fosse un tabù dichiararsi omosessuali, ma senza piagnistei e retorica sulla discriminazione. Piuttosto – anche se l’asse narrativo del film non è costruito neanche su questo – punta il dito contro l’ipocrisia di tutto un mondo dello spettacolo che dipende dalla luce dei riflettori e che censura senza pietà debolezze e limiti degli esseri umani, in nome di un dio denaro cui asservire corpi e anime. Bruciati, però, questi ultimi, anche da una passione, reciproca, autentica e consapevole (i due si amano davvero; loro è la decisione di consumare la vita senza inversioni di marcia); una dinamica descritta con limpidezza, affidata già a una delle scene iniziali del film, quando la sorte di Scott è anticipata da quella del precedente fidanzato di Liberace – che inutilmente lo mette in guardia – a cui il ragazzo diventerà progressivamente identico.
È in nome di una fragilità, confessata solo in privato da entrambi, che tra l’egocentrico artista e l’affascinato figlioccio si stabilisce un primo legame, destinato a diventare sempre più profondo e morboso, fino a esplodere. Un rapporto in cui, con cinico senso pragmatico, il manager (interpretato da un irriconoscibile Dan Aykroyd) è un ago della bilancia puntato sempre verso se stesso e il proprio tornaconto. Un rapporto, però, anche sincero e destinato comunque a ricomporsi, come testimonia il sorriso di Scott durante il funerale del suo maestro, che con geniale mossa di alta scuola di scrittura – uno dei tanti guizzi di un film che riesce a raccontare cose indigeribili facendoti comunque affezionare ai personaggi – si trasforma in un’ultima incredibile esibizione (a sua volta preparata da un dialogo precedente in cui il suo pusher chiede a Liberace quando avrebbe fatto “volare il pianoforte”).
Il film, prodotto per la televisione americana da HBO e solo in un secondo momento distribuito nelle sale, è lucido come pochi nella descrizione dei rapporti tra persone dello stesso sesso (senza lesinare scene in cui Douglas e Damon si scambiano più di qualche tenerezza; sconsigliabile quindi a un pubblico che non sia adulto e maturo) e qualsiasi altro discorso cade in secondo piano lasciando lo spazio alla descrizione di come passione e successo diventino a loro volta droghe, capaci di dare alla testa fino alla distruttività (e che non cambierebbero, sembra suggerire la sceneggiatura, se certe abitudini potessero uscire dalle camere da letto ed essere vissute alla luce del sole). Emblematico l’episodio in cui Liberace, non riconoscendosi in una trasmissione televisiva per la quantità di rughe, non solo si fa ringiovanire con un’operazione di chirurgia plastica, ma costringe anche il suo protetto – come se fosse uno schiavo o un oggetto – a sottoporsi, ancora giovane, a un’uguale operazione che ne modifichi i connotati (per farlo somigliare il più possibile a sé) senza che il diretto interessato abbia non solo la forza ma, come prima si diceva, anche la volontà di rifiutare.
Una storia dai molti carnefici, dunque, in cui le poche vittime si trasformano presto in torturatori di se stessi ma in cui non manca, a fornire un contrappeso morale anche da un punto di vista drammaturgico, la figura positiva dei due anziani genitori adottivi di Scott, nelle cui telefonate al ragazzo, fatte dall’ormai lontano ranch in cui egli è cresciuto, emergono perplessità e preoccupazioni in cui senz’altro possono identificarsi gli spettatori. Un film brillante, tecnicamente perfetto (molto riuscita la ricostruzione delle atmosfere anni Settanta), consigliabile purtroppo solo a pochissimi, che abbatte sì una serie di altari con i loro idoli (sesso, potere, denaro, fama, droga) ma che è anche un ironico omaggio a un incorreggibile grande talento, per cui provare in fondo affetto nonostante le colpe.
Scegliere un film 2014
Tag: 3 stelle, Biografico, Drammatico