Dafne è una ragazza down di trentacinque anni, gioviale e spensierata, che vive in Toscana con gli anziani genitori. Un giorno, al termine di una vacanza in campeggio, la madre ha un malore e muore. L’unico genere di evento, forse, in grado di togliere il sorriso alla vulcanica Dafne. Ma è solo un momento, perché la ragazza torna presto quella di sempre. Chi invece non sembra avere le risorse e forse nemmeno la voglia di rialzarsi è Luigi, il padre, con il quale Dafne ha un rapporto a dir poco complicato. Un viaggio a piedi per raggiungere la tomba della madre, in un cimitero sperduto in mezzo alla campagna toscana, è l’occasione giusta per riscoprire l’affetto che li lega…
In questo suo secondo lungometraggio, come nel pluripremiato Mar Nero, Federico Bondi sceglie di raccontare una storia partendo da un dramma familiare, privato, nascosto, per poi condurre fuori i protagonisti e spingerli a intraprendere un viaggio, fisico ed esistenziale, che porta ad esplorare e a saggiare sentimenti e relazioni, mettendo generazioni diverse a confronto.
Anche questa volta il regista riesce sapientemente ad entrare nell’intimità affettiva di una famiglia speciale – come speciale è quella figlia con la sindrome di Down – e ha il coraggio di raccontare il tema della diversità e dell’handicap come una sfida, senza timori ma soprattutto senza perdersi in retorica né inutili pietismi.
Dafne è infatti un film asciutto che si riduce all’essenziale, in ogni suo aspetto. I dialoghi sono dilatatissimi e la regia – per niente morbosa nella ricerca del primo piano e costruita sulla verità della macchina a mano piuttosto che su inutili virtuosismi – esalta la ricchezza emotiva della protagonista (tra capricci e straripanti manifestazioni d’affetto) che si staglia per contrasto sul minimalismo espressivo degli altri personaggi, soprattutto quello del padre, che in certi momenti sembra implodere implica già che l’esplosione si generi da dentro. Il ritmo narrativo, così compassato, lascia il tempo per assaporare le emozioni, per stare con i personaggi e sforzarsi di comprenderli. Il dramma esistenziale, come già detto, è soprattutto quello di un anziano genitore, stanco e spaventato, che non sembra avere le energie necessarie per gestire da solo la difficile personalità della figlia, la quale, forse pro- prio in virtù del suo handicap, nella vita sembra averle avute tutte vinte. Proprio Luigi dichiara, nel climax, uno dei temi del film. La sua ferita infatti, per paradosso, sembra essere lenita solo quando, davanti a un bicchiere di vino rosso e a una cameriera sconosciuta, viene gridata sottovoce, e riguarda la difficile accettazione di una diversità così “ingombrante” come quella della figlia. Una battaglia durata trentacinque anni con se stessi ma anche con quella ragazza che fa di tutto per essere normale, che sente di esserlo ma che, a cominciare dai genitori, non è mai stata trattata come tale.
Ma Dafne è un film che parla anche del tempo – una parola che torna spesso soprattutto all’inizio, nei dialoghi tra madre e figlia – e dei diversi modi di pensarlo e di viverlo, un inno alla vita (come la canzone cantata a squarciagola da Dafne prima di partire insieme al padre) evidenziato dalla trovata poetica nella scena finale…
Scegliere un film 2019
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