Sei aspiranti comici stanno ricevendo gli ultimi suggerimenti dal maestro Eddie Barni (Natalino Balasso), prima di uno spettacolo. Alla serata parteciperà il famoso impresario tv Bernardo Celli (Christian De Sica) che scritturerà il migliore. I fratelli Marri non sono affiatati ma devono recitare insieme, Samuele è sprezzante nei confronti degli altri; Gio appare socievole, ma è un ipocrita; Michele dal profondo Sud, soffre un complesso di inferiorità e, infine, il giovane Giulio, è un vulcano pronto a far esplodere la sua insofferenza. Eddie propone di fare della recitazione comica una via per elaborare la malinconia e la complessità del vivere, lontano dai luoghi comuni. Ma i sei sono attratti da quanto propone Celli: per lui ciò che conta è la risata del pubblico, da ottenere ad ogni costo. Dopo lo show, Celli condanna gli insuccessi di chi non ha seguito i suoi consigli e prende con sé i due che, allontanandosi dai suggerimenti di Barni, lo hanno assecondato. Per Eddie è una sconfitta che egli commenta con l’eccentrico Giulio, quello che forse ha capito di più la sua lezione.
In sé è da ammirare l’intenzione di un cineasta del calibro di Salvatores di volere rivisitare e perfezionare il suo lavoro, tornando sulla pièce di Trevor Griffiths che aveva messo in scena al Teatro dell’Elfo negli anni ’80 e che era l’intelaiatura del suo secondo lungometraggio Kamikazen – Ultima notte a Milano del 1988. Più di trent’anni dopo, al centro è ancora il tema della comicità col suo profondo significato esistenziale. Secondo il Barni di Balasso il comico non può prefiggersi “soltanto” di svagare il suo pubblico, come sostiene il personaggio interpretato dal bravo Christian De Sica; egli, invece deve farsi tramite esistenziale, “osare” per indagare la realtà, svelare ipocrisie e smontare certezze. È la funzione satirica quella che nobilita il teatro comico, un impegno militante, di sentinella dell’anima che rivela allo spettatore verità che egli stesso si nega. Lo scarto fra la funzione nobilitante della recitazione e quella invece che solletica gli istinti più bassi del pubblico è la posta in gioco che i dialoghi mettono in campo, non senza il rischio che gli ammonimenti di Barni/Balasso appaiano un poco moraleggianti.
La riflessione che il regista-sceneggiatore intende proporre è, dunque, molto attuale anche grazie alla fedeltà al testo originale di Griffiths. Riproporre oggi il significato profondo che può avere la comicità andando oltre la vacua superficialità di molto intrattenimento odierno è un elemento di indubbio valore. Vi è poi l’interessante prova attoriale di tutto il cast, che vede protagonisti gli eccellenti Balasso e De Sica, in due ruoli per loro emblematici. Il primo incarna l’opposto del cabarettista disimpegnato da noi conosciuto; mentre De Sica impersona un suo alter ego che giustifica la comicità che il noto figlio d’arte ha per lo più messo in scena nella sua popolare carriera. Da notare anche Ale e Franz e il sempre più promettente Pranno: una sorta di clown triste e Puck shakespeariano. Ciò che lascia qualche perplessità è l’operazione di messa in scena. È come se Salvatores abbia trascurato di compiere pienamente l’adattamento cinematografico e, pur sostenuto da un buon montaggio, si sia limitato ad una sorta di esperimento di teatro filmato: un ibrido che non può ambire a grande attrazione. Inoltre, la malinconica aula scolastica sotto la battente pioggia milanese, una fotografia altrettanto cupa, le pur bellissime ma struggenti canzoni di Tom Waits (Rain Dogs in apertura, Downtown Train in chiusura) concorrono a rendere il film eccessivamente elitario e un po’ supponente nella sua volontà di esprimere dichiarazioni dal valore universale partendo, però, da un’ambientazione troppo statica che non aiuta il coinvolgimento dello spettatore.
Giovanni M. Capetta
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