Cetto La Qualunque ha lasciato la politica e l’Italia e ora vive in Germania, dove è un imprenditore che ha messo in piedi una catena di pizzerie e locali, gestite in maniera non proprio pulita. Ha una bella moglie tedesca e una bambina, e sembra non gli manchi nulla, nemmeno il suo Paese. Quando però una telefonata annuncia che una zia sta per morire, Cetto torna in Calabria, a Marina di Sopra. Sul letto di morte, la zia gli rivela che in realtà è figlio del principe Luigi Buffo di Calabria. Il circolo borbonico del paese, guidato dal conte Venanzio, e di cui fa parte persino un cardinale, vede finalmente in Cetto l’occasione per il ritorno della monarchia in Italia. Cetto si prepara dunque per diventare “Re delle due Calabrie”, nella sostanza Re d’Italia, e mettere fine alla Repubblica Italiana, ormai allo sfascio.
Antonio Albanese torna a vestire i panni del personaggio di sua invenzione, Cetto La Qualunque, protagonista di questo terzo film, dopo Qualunquemente del 2011 e Tutto tutto niente niente del 2012, sempre per la regia di Giulio Manfredonia.
In questa nuova avventura, Cetto riscopre le sue origini nobili e si prepara a diventare re d’Italia e a smantellare una repubblica che ormai non ha più niente da offrire agli italiani. Guidato dal conte Venanzio, prende lezioni di bon ton e cerca faticosamente di trovare l’eleganza dovuta al ruolo, senza abbandonare mai la sua ossessione per u pilu e generando una serie di clamorose gaffe.
Cetto aspira ad essere un monarca assoluto e a diventare “l’uomo forte al comando”, spesso ricercato dal popolo italiano. Questa premessa, espressa nell’attuale contesto politico, fragile e per molti aspetti confuso, risulta interessante e promette un buon racconto di commedia. Tuttavia, lo svolgimento della storia non è purtroppo altrettanto forte e le vicende di Cetto non riescono a divertire come ci si aspetterebbe. Il filo del racconto è spesso frammentato e interrotto da momenti comici un po’ fini a se stessi, che non servono la storia principale e scadono spesso in una comicità volgare. Si ha la sensazione che il film proceda in maniera un po’ episodica e che alcuni personaggi vengano presentati ma poi non adeguatamente sfruttati, come accade ad esempio con i suoceri tedeschi, presentati come possibili antagonisti, ma poi dimenticati, anche quando il matrimonio della figlia sarà messo in discussione dal nuovo ruolo di Cetto. Stessa sensazione si ha per la prima moglie di Cetto e il viaggio nel convento di clausura dove si è rinchiusa, o per l’avventura del figlio Melo, sindaco di Marina di Sopra, che si spende per una città a bassissimo impatto ambientale e che si trova poi ad essere arrestato per colpa degli affari loschi del padre, per decidere infine, inspiegabilmente, di appoggiare il padre nella sua campagna per diventare re.
I pochi momenti che fanno sorridere, tra cui le lezioni di bon ton o il contrasto tra la visione di Cetto e una politica pulita come quella di Melo, non riescono a bilanciare una commedia che si appoggia più che altro, in maniera ripetitiva e un po’ insistita, sulle ossessioni di Cetto e su avverbi inventati.
Le battute su un popolo italiano capace di credere in maniera sciocca a qualunque cosa lasciano più che altro l’amaro in bocca e rischiano di risultare offensive, senza produrre nessun tipo di effetto comico.
Il film va poi verso un finale con un colpo di scena prevedibile e non si arriva nemmeno a una vera conclusione. Si chiude con un balletto e il rap di Gué Pequeño, che risulta un ulteriore elemento giustapposto, senza nessuna compattezza.
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