Billy Lynn e la sua squadra di commilitoni conquista la celebrità quando una loro missione sul campo in Iraq viene ripresa da una troupe; i ragazzi vengono allora mandati in patria per un tour promozionale che risollevi il favore degli americani verso la guerra. Ma per Billy il ritorno, che culmina in una giornata allo stadio in cui la squadra è ospite d’onore nell’intermezzo di una partita di football, è l’occasione per ripensare alle ragioni del suo arruolamento e domandarsi se abbia senso andare avanti…
Non è nuova all’Esercito Americano la strategia di autopromozione attraverso squadre di soldati distintisi sul campo di battaglia. È quanto si fece con i soldati che piantarono la bandiera sull’isola di Iwo Jima, come raccontato nel bellissimo film di Clint Eastwood Flags of our Fathers, anche se in quel caso alcuni di loro erano morti prima di poter tornare in patria.
Ma se il film di Eastwood, pur non nascondendo le ambiguità e le contraddizioni della macchina della propaganda, si poneva innanzitutto come una celebrazione dell’eroismo e della fratellanza tra i soldati, il film di Ang Lee, invece, appare non solo e non tanto come una complessa e non sempre fruibilissima critica della “guerra americana” in Iraq (la storia, ispirata a un romanzo di successo, è ambientata nel 2004) ma soprattutto come una riflessione sull’incolmabile distanza che si crea tra chi la guerra la vive sulla sua pelle e chi in patria ne ha una percezione comunque distorta.
Tra Billy e i suoi compagni (tra cui spicca il sergente interpretato dal sempre efficace Garreth Hedlund) e gli americani rimasti a casa c’è un abisso, per superare il quale non basta l’entusiasmo della cheerleader che si “innamora” di Billy, né la spregiudicatezza del manager della squadra interpretato da Steve Martin, che vuole pagare pochi spiccioli ai soldati per finanziare il film tratto dalla loro storia.
Non è merito della filosofia e della religiosità un po’ generica del comandante morto in quella famigerata operazione (a cui dà volto e carisma Vin Diesel, che porta con sé una statuetta del dio Ganesh), se Billy è diventato un altro e fatica a farsi capire anche dall’amata sorella che ora vorrebbe riportarlo a casa. O almeno non solo…
Pur nelle contraddizioni che sperimenta sulla sua pelle (ottimamente rese anche con i comportamenti scorretti e imbarazzanti di alcuni altri soldati), infatti, Billy ha ormai raggiunto un’altra dimensione e l’America che incontra (fatta di spettacoloni, esagerazioni, soldi che girano ma non arrivano mai, gente che parla di cose che non conosce e gente che disprezza senza cercare di capire) non gli appartiene più.
Molto più viva è l’esperienza, rivissuta come un puzzle attraverso i flashback della guerra e della sua violenza, in cui Billy, proveniente da una famiglia che appare priva di riferimenti, ha trovato un’appartenenza in cui riconoscersi.
E così all’America dei grandi riti collettivi (sport, cibo, spettacolo…) finisce per preferire l’incognito del deserto, dove può trovare una dimensione sia fisica sia spirituale capace di dargli un’identità.
Ang Lee racconta con grande potenza visiva sia la violenza cieca della guerra che la spettacolarità barocca ed eccessiva dell’America di oggi, e costruisce un racconto articolato, esplorando concetti e caratteri in modo spesso indiretto e costruendo un’inusuale pellicola che abbina la grandiosità (anche nel budget) a una complessità che rende a volte un po’ faticoso il procedere e difficile il coinvolgimento, ma che certamente sfida lo spettatore a costruire uno sguardo critico sugli eventi (senza limitarsi a dividere il campo tra buoni e cattivi o a liquidare il contestatissimo conflitto con un giudizio generico) e a concentrarsi sull’esperienza umana del protagonista.
Luisa Cotta Ramosino
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