Suzu ha perso la madre quando era piccola e da allora non si è più ripresa. Solitaria e un po’ goffa, a 17 anni scopre [U], una web app dove diventa famosa come Belle, una misteriosa cantante…
Accolto da un’ovazione di quasi 15 minuti al Festival di Cannes 2021, Belle è la settima pellicola di Hosoda Mamoru, regista e animatore giapponese che con questo lungometraggio si aggiudica il suo maggiore successo in patria e all’estero. La storia, che mescola suggestioni occidentali e orientali, affronta temi vicini al pubblico teen, come il rapporto con i social, ma anche le ferite emotive e il bisogno di trovare se stessi. Per realizzare il progetto, Hosoda ha messo in piedi una squadra di talenti da tutto il mondo, tra cui il coreano Jin Kim, storico animatore Disney, e i registi Tomm Moore e Ross Steward, creatori di un’iconica trilogia animata ispirata al folklore irlandese. Questa commistione di stili – cosa rara per gli anime – è alla base del particolarissimo look del film, reso molto internazionale anche dalla spettacolarità della computer-grafica, che strizza l’occhio all’animazione statunitense (il design di Belle, l’avatar della protagonista, ricorda quello delle eroine di Frozen). Questa ricchezza visiva, che rende Belle una gioia per gli occhi, perde il passo dinanzi a una scrittura non sempre chiara, pur sostenuta da una colonna sonora davvero coinvolgente ed evocativa.
Quando si parla di giovani, media e solitudine è facile cadere nel luogo comune per cui “Internet fa male”, e, a prima vista, Belle sembrerebbe non fare eccezione. Il film si apre con Suzu rintanata in camera sua, immersa nella realtà virtuale: un rimando al fenomeno hikikomori, cioè il ritiro sociale dei figli in stanza, sempre più diffuso nella generazione Z. Anche l’idea per cui una normale studentessa possa nascondere una vita da pop star non è una novità. Pensiamo agli anime del genere majokko, che mostrano “ragazze magiche” – questo il significato della parola giapponese – in grado di trasformarsi in una versione migliore di loro stesse, spesso diventando proprio delle cantanti. Hosoda, però, è molto critico verso la rappresentazione delle figure femminili negli anime, e ha ragionato a lungo sull’impatto sociale della tecnologia, tema che attraversa tutta la sua produzione, dai Digimon (1999) a Summer Wars (2009). L’originalità di Belle sta nell’evidenziare anche gli aspetti positivi dei nuovi media, in quanto strumenti che possono avere effetti benefici sulla nostra vita. Come spiega Hosoda, “Belle non è la storia di una star del canto, ma la storia di Suzu, un’adolescente timida che ritrova attraverso questo mondo virtuale il suo amore per il canto, cresce, si apre e si trasforma come persona anche nella sua realtà”.
La crescita di Suzu passa anche attraverso l’integrazione in un gruppo e la ricostruzione del legame con il padre, che la prematura scomparsa della mamma aveva inevitabilmente reciso. Su questo discorso s’innesta una peculiare rivisitazione de La Bella e la Bestia, fiaba europea che circola in molteplici varianti dal Settecento in poi, imprimendosi nella memoria collettiva grazie al classico Disney del 1991. Tuttavia, Belle prende le distanze dall’originale – tanto che la romance è quasi assente – per concentrarsi sul tema, caro a Hosoda, della metamorfosi. A ispirarlo è soprattutto il Sangetsuki (“La Luna sopra la Montagna”), una novella assai nota in Giappone, che narra di un uomo mutato in tigre perché incapace di realizzarsi come poeta. Da questa fonte Belle eredita la sua visione sfaccettata dell’individuo, in cui convivono ferinità e gentilezza, nonché l’introduzione di un caso giallo, sorta di “film nel film” che sfortunatamente costituisce anche l’anello debole della trama. La delicatezza del racconto affascina e fa riflettere, ma per chi si avvicina all’opera di Hosoda per la prima volta è forse consigliabile partire da film meno complessi.
Mariachiara Oltolini
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