Barbie stereotipo vive con le altre Barbie e pochi bistrattati Ken a Barbieland, un mondo perfetto in cui tutto ruota intorno ai desideri delle donne. Le Barbie sono convinte che nel mondo reale le donne siano completamente realizzate grazie alla rivoluzione portata dalla bambola nell’immaginario fem-minile. Ma, un giorno, Barbie stereotipo registra una serie di malfunzionamenti e scopre che, se rivuole indietro la sua vita perfetta, deve andare nel mondo reale e trovare la bambina che gioca con lei e che forse non è esattamente felice come si immagina.
Barbie, il film dedicato alla bambola più iconica di sempre, nasce nel 2008 con un ac-cordo tra Mattel e Universal Pictures. Molti anni e molte traversie dopo, approda in Warner Bros, dove incontra la visione artistica di Greta Gerwig, regista di Lady Bird e Piccole donne.
I primi minuti del film, tra citazionismo selvaggio, cura del dettaglio e interpretazioni magistrali (Margot Robbie e Ryan Gosling sono al loro meglio) promettono bene. La premessa narrativa è fortissima: la bambola più stereotipata del mondo inizia a nutrire pensieri di morte, l’umanità si insinua nella plastica del suo corpo perfetto. Ce ne sarebbe abbastanza per un prodotto high concept, come e più di un film di supereroi, e Barbieland, il mondo di riferimento, può contare sulle infinite rivisitazioni, a volte bizzarre e ridicole, che la bambola Mattel ha attraversato lungo sei decadi. Ma ben presto qualcosa si inceppa e interferisce: non si tratta certo della recitazione, dei costumi o della scenografia che rimangono spaziali sino allo scadere del centoquattordicesimo minuto, il vulnus risiede prepotente nella sceneggiatura. Se ci si fosse limitati a un’operazione commerciale o a una commedia grottesca, anche graffiante all’occorrenza, probabilmente il risultato sarebbe stato quello di una storia godibile in una confezione di altissimo livello. Gli autori (Greta Gerwig e Noah Baumbach), invece, hanno optato per la direzione del film-manifesto, lasciandosi sopraffare dalla quantità di spunti offerti dall’immaginario di riferimento, hanno accavallato linee narrative e personaggi come argomentazioni sulle pagine di un pamphlet.
Il film si arena nel tradimento dell’imperativo Show don’t tell e, nel tentativo di punteg-giare la narrazione di messaggi sovrapposti (il subdolo potere del patriarcato, l’importanza di essere semplicemente persone al di là di ogni ruolo), lascia ben poco spazio alla storia e ai suoi protagonisti. Il risultato è – nella seconda parte del film – un succedersi di dialoghi retorici e di personaggi che si riducono a idee incarnate, proprio come la magnifica Margot Robbie nel film.
L’incontro tra “barbietà” e umanità, accattivante avvio della trama, avviene solo sulla carta: di fatto a impoverirsi è l’umanità di Gloria e Sasha, la madre e la figlia “reali” coinvolte nella narrazione, di cui non si approfondiscono desideri e motivazioni se non in dialoghi predicatori come quello in cui Sasha smaschera l’operazione capitalista di Barbie, un guizzo di opposizione che non trova alcun seguito nella storia.
Ancora più riduttiva la rappresentazione degli uomini che travalica la parodia dei Ken e sconfina nel mondo reale popolato esclusivamente da machi e bamboccioni. Agli sceneggiatori sfugge il piede sull’acceleratore della parodia che, confondendosi con la realtà, spunta le sue armi e viene privata del potenziale rivelatore.
Il consiglio di visione è prendere Barbie per quello che potrebbe essere: un’operazione commerciale con costumi e coreografie magnifici e qualche battuta divertente. È possibile, infatti, che si esca dalla sala con una profonda voglia di rimmergersi nel mondo della bambola più amata di sempre: difficilmente, invece, si uscirà cambiati, commossi o con la voglia di lottare contro le distorsioni del patriarcato.
La risonanza e l’hype che hanno circondato l’uscita di Barbie raccontano di un prodotto perfettamente in linea con lo spirito del nostro tempo, un fenomeno perfetto per generare meme e campagne social, passeggero come i tanti video virali che affollano le nostre bacheche. Da un certo punto di vista, in questo senso, Barbie è un film amaro: incarna una tendenza contemporanea a lottare per ideali e diritti senza assumersi rischi, ma anzi felicemente finanziati da grandi marchi e celebrati dai media a canali congiunti. Un’idea di lotta che, forse, appartiene più al mondo di Barbie che al nostro difficile e imperfetto mondo umano.
Eleonora Recalcati
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