Il drammaturgo Conrad Earp ambienta la sua commedia nel 1955 ad Asteroid City, uno sperduto villaggio immaginario nel deserto del Nevada, famoso per la caduta di un asteroide nelle vicinanze. Qui si tiene la convention della Junior Stargazer, un gruppo di scienziati adolescenti che presentano le loro invenzioni, concorrendo all’assegnazione di una borsa di studio. I ragazzi e le loro famiglie si incontrano, intrecciando rapporti variegati. Tra di loro Augie, reporter di guerra a cui è appena morte la moglie e padre di uno dei giovani scienziati, stringe una relazione con la star del cinema Midge. A prolungare la bizzarra convivenza tra gli invitati è un misterioso incontro del terzo tipo che induce il Governo a imporre una quarantena.
Quando si pensa a Wes Anderson si visualizza immediatamente uno stile, fatto di colori, costumi, strutture precisi, prima ancora che di temi o personaggi. La predominanza della forma è una caratteristica che il regista porta al parossismo in Asteroid City, sino a rasentare il rischio che, come nel deserto di plastica che ospita la sua commedia, non rimanga altro che il contorno delle cose. Gli stilemi narrativi, a partire dal gusto della metanarrazione, sono l’asse portante del film: esibiti in modo didascalico, attraverso il raffinato bianco e nero della cornice e la suddivisione in atti e in scene, ricordano costantemente allo spettatore che è tutto finto. La finzione e la forzatura inquinano i rapporti messi in scena, a partire da quello tra il padre reporter di guerra, cristallizzato nella sua anaffettività, e i figli, vulcanici, divertenti, la cui freschezza viene però continuamente congelata da un’ironia che stenta a cogliere il segno. Ugualmente forzata risulta la storia d’amore tra il reporter e la star (interpretata da Scarlett Johansson), vissuta attraverso il riquadro perfetto delle finestre a cui si affacciano, intessendo un dialogo altrettanto perfetto ma privo di autenticità.
Nella spietata esasperazione con cui si cristallizza ogni slancio, ogni sentimento, ogni moto umano, sembra di scorgere una critica, una denuncia, ma di che cosa non è chiaro, o almeno non a chi scrive.
Eppure, l’ambientazione e il pretesto narrativo offrirebbero infiniti spunti di comicità amara, persino di satira. L’America degli anni ’50, alle prese con l’ufologia, il complottismo, l’emergere del potere mediatico mettono su un piatto d’argento materiale variegato e vivido che il regista sfrutta solo in pochi divertenti quadretti.
Non mancherebbero nemmeno i personaggi interessanti, primi fra tutti i giovani e geniali scienziati accorsi ad Asteroid City per la premiazione, la cui unicità viene continuamente sottolineata. Nessuno di questi viene però scelto come punto di vista: forse il tentativo è quello di offrire un affresco polifonico; invece, ne risulta una giostra di maschere che, anche quando ben riuscite, non riescono a prenderci per mano e condurci dentro il film. Sull’unica strada di Asteroid City si susseguono come su una passerella di moda star del calibro di Tom Hanks, Tilda Swinton, Adrien Brody, senza che a nessuno di loro sia mai concesso il tempo di diventare un personaggio.
La figura più vivida e inedita del film, a conti fatti, rimane forse l’alieno, indimenticabile nelle sue movenze furtive, da cartoon. Secondo il fotografo Augie l’ospite extraterrestre avrebbe guardato i presenti “come fossero spacciati”. È una linea di dialogo fulminante che risuona nel vuoto del deserto (e del film). Forse il regista ci sta dicendo che il destino dei personaggi messi in scena, e il nostro, è “di essere delle scorze di uomini, degli involucri, mai delle persone”, come recitava Gaber? Probabilmente no: forse dietro la perfezione dei costumi e delle inquadrature di Asteroid City c’è solo la passione bruciante per la forma che sicuramente può conquistare i fan più devoti di Anderson ma che difficilmente può avvincere il vasto pubblico al punto da apprezzare un’opera impeccabilmente e artificiosamente vuota.
Eleonora Recalcati
Tag: 2 Stelle, Commedia, Sentimentale