Un treno di lusso deragliato sulle montagne. A bordo, un omicidio e dodici sospettati che fanno un quadro di varia umanità — la pluridivorziata alla ricerca di un nuovo marito, la principessa russa, un professore austriaco, un medico di colore… Tutti apparentemente estranei al fattaccio. Eppure, il colpevole deve essere lì. Un rompicapo. Pane per i denti del grande Hercule Poirot, che la sorte ha voluto a bordo del mitico Orient Express.
La giustizia perfetta non è di questo mondo. Che il colpevole paghi per quanto ha fatto non eliminerà il male nel profondo dell’umana condizione. I verdetti non risolvono. Comprendere sì, forse. Si potrebbe sintetizzare con queste frasi il messaggio dolente di un nuovo adattamento del celeberrimo romanzo di Agatha Christie.
Il successo era difficilmente prevedibile. Un titolo già sfruttato sul grande e piccolo schermo. Un giallo classico che sa d’altri tempi. Una trama così centrata sulla detection da sembrare oggi più adatta a un episodio di serie televisiva che ad un film… Apparentemente, non gli ingredienti per un pingue incasso mondiale. Invece il film lo ha fruttato.
Sono piaciuti il super cast e la ricca messa in scena. Hanno funzionato i calibrati aggiornamenti su una storia che nel suo impianto originale è stata ampiamente rispettata.
In confronto al passato, Poirot è ringiovanito. E’ virile. Ha energia fisica. La regia di Branagh al servizio dello stesso nei panni dell’investigatore è una buona soluzione. Al centro della scena ed esaltato dai primi piani l’attore inglese è bello e bravo.
La mossa saliente di scrittura, però, è stata di dare un’anima al personaggio. Il narcisista e misogino detective ha avuto, qui, una moglie, di cui conserva la foto e che rimpiange. Soprattutto, l’investigatore belga non è solo una macchina intellettuale, un perspicace districatore di puzzle criminali. Ha anche una coscienza, la quale acquista via via rilievo nella storia, fino alla scelta finale che il personaggio — aggiunta del film — deve fronteggiare.
Lo sceneggiatore americano Michael Green semina in un divertente teaser iniziale le basi di un arco di trasformazione interiore. Dalla fiducia che la ragione possa dare un contributo a “come il mondo dovrebbe essere”, eliminando le imperfezioni, alla presa di coscienza dell’ineluttabilità del male, con la speranza che passa a puntare sul cuore, sulla comprensione delle sofferenze che motivano i delitti.
La pietas dell’epilogo ha un gusto relativistico. Le scene action sono pretestuose. Ma il redde rationem, lo svelamento del colpevole, con il detective a farsi carico del dilemma morale, ha fascino.
Resta Agatha Christie. Non è Dostoevskij. Comunque è apprezzabile.
Scegliere un film 2018
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